Forte ultimamente è stato l’appello, l’interrogativo circa il profondersi di questo sentimento – tanto quanto l’allure da banalità del male che sembra accoglierne l’eco. Quasi innominabile, inaffrontabile per chi lo prova – inspiegabile e gratuito per chi lo subisce, retoriche e perbenismi a parte. L’invidia, propria secondo Nietzsche (dalla cui opera prende il titolo questa rubrica) “dell’uomo del risentimento”: l’invidioso che “non riesce a vedere il cuore delle cose” da eterno infelice. Da Salieri in poi – che di Mozart invidiava la risata, la sua joie de vivre prima ancora del suo talento – i casi si innestano l’uno sull’altro, innumerevoli come gocce di pioggia battenti sull’asfalto già bagnato. Eppure pare che il coraggio di parlarne con distacco sia sopraggiunto soltanto adesso; con la disillusione che ormai non può evitare di affrontare una realtà da sempre irrisolta: reale come quella dell’invidia. E al contempo irreale quanto la distorta visione delle cose che molto spesso appartiene all’invidioso.
L’invidia può essere di chiunque e può altrettanto rivolgersi contro chiunque, in un tristemente democratico alone di grigiore. Non esiste un’oggettività o una razionalità nell’invidia: ce l’ha dimostrato il caso di Stefano Leo, trentaquattrenne accoltellato a Torino nel febbraio dello scorso anno da un giovane di ventisette anni, che non tollerava di vedere sorridere quello sconosciuto incontrato per strada. Così come i due fratelli di Colleferro che hanno massacrato di botte Willy Monteir Duarte appena un mese fa: il ragazzo di colore dallo sguardo pulito. L’ultimo sconvolgente episodio in ordine di tempo: quello della coppia di fidanzati di Lecce assassinati dal ventunenne al quale avevano affittato una stanza della loro casa, dopo aver organizzato nel dettaglio un piano spietatamente lucido ed articolato. Di questo sulfureo irragionevole veleno non abbiamo potuto che chiederci il perché. E primo, perché l’hanno fatto. Per invidia: questa la risposta per loro stessa ammissione – diretta o meno – perché anche il pestaggio di un ragazzo come Willy, nonostante non sia mai stato sottolineato, è avvenuto per invidia. Quella stessa rabbia, non a caso, per la gioia di vivere scorta nell’altro: per la purezza, per la bontà – come si legge nella parabola dal Vangelo secondo Matteo: “Sei invidioso perché io sono buono?”.
E l’invidia, per tornare alla domanda iniziale, una risposta non ce l’ha. E’ alimentata dalla gratuità, così come la bontà che non tollera nel prossimo. E poi un altro perché: la giovinezza, di tutti, carnefici e vittime. Ci ha stupito come a sentire e mettere in atto tanto livore siano stati tutti giovani, e nei confronti di altri coetanei o quasi. Come se avvolti da una morsa convulsa e malata i giovani fossero responsabili ed incolpevoli ad un tempo; figli di una società che li ha resi privi di empatia, ai limiti del patologico ed incapaci di reale emotività, di affrontare le proprie sconfitte e di elaborarle in maniera sana, finendo così per riversarne il peso sugli altri: quelli che vivono il loro stesso tempo ma che sembrano aver trovato la soluzione a questo male di vivere, all’incolmabile vuoto interiore.
Ed ancora un perché: il genere. Lungi dal trasformare questo articolo in un’invettiva sessista, certo non si può far a meno di notare che questi tre omicidi in particolare e gli ultimi in generale siano stati per la maggior parte commessi da uomini. Ma come, l’invidia – il sentimento innominabile, meschino – non era forse da considerarsi appannaggio femminile? Delle donne verso le altre donne? No. O meglio, non solo. Evidenza già chiara ma che attraverso certi gesti dall’insopportabile strazio, ci suggerisce l’interiorizzarsi di un’evoluzione. La percezione di un cambiamento che nella sostanza non c’è mai stato – perché l’invidia non ha mai avuto un sesso d’appartenenza – ma che adesso abbiamo formalmente appurato, letto, riconosciuto. Non si tratta di un impulso storicamente e più comunemente femminile, come qualcuno ha spesso cercato di farci credere nella speranza di ridurne la coscienza collettiva. Ora che è il momento di liberare la nostra autocoscienza, ci rendiamo conto di quanti siano gli uomini che invidiano gli altri uomini; e quanti gli uomini invidiosi delle donne.
E la causa non è certo imputabile alla parità di diritti (sacrosanti) ma sempre alla stessa non-ragione, priva di colpe e per questo ancor più potente: all’energia nell’altro, al talento, all’entusiasmo. Quello stesso motivo per cui la vittoria altrui è vissuta dall’invidioso come una diminuzione di sé; per cui sente il bisogno di intraprendere una competizione a senso unico, e per cui ‘tollera’ vicino unicamente chi ritiene meno intelligente, meno capace o meno bello: per cui non pensa di poter nutrire e risvegliare l’invidia che ha dentro, il tormento che non riesce a controllare. E, quale risposta disperata – dopo l’eliminazione ideale o materiale nei casi più atroci del “bersaglio” – può finalmente creare dentro di sé una dimensione fasulla ed artefatta che stravolga l’effettiva realtà; che sminuisca l’individuo oggetto della sua invidia ed elevi coloro in cui si rivede, grazie ai quali può percepirsi come über allen e rendere attendibile la sua realtà fittizia: la menzogna che racconta a se stesso.