Ho già scritto, nel pezzo precedente, dell’importanza di nominare bene le cose. Allora perché tornare sopra l’argomento? Lo faccio perché la questione è vasta, profonda. E, rinnovo le affermazioni già espresse, fondativa. Le considerazioni che porto, che raccolgono al loro interno parole e storie di tutta l’umanità con la quale sono entrata a contatto nel tempo, si inanellano, dipendono l’una dall’altra. Occorre ripartire dalla parola, da quello che rappresenta di ogni cosa, per poter raccontare bene la realtà. Occorre essere d’accordo sul loro significato per poter trasferire a chi ascolta il loro reale contenuto. Sembra un cruccio giornalistico, tecnico, quello che mi anima e di cui vi scrivo, ma non lo è. Scende molto più in fondo, scava in ambiti più seri e primari di quanto possiate essere toccati o meno da un mio articolo. Questa è roba che passa senza lasciare orma: aprite il giornale, leggete, passate oltre, riponete il giornale sul tavolo. Gli articoli dei quotidiani hanno lo stesso ciclo vitale delle farfalle, se va bene conservano gli occhi addosso per 24 ore. Anche se le storie che narrano e commentano hanno a che fare con le persone, con vite che esistono prima e dopo il passaggio sul rotocalco, e niente di quello che riguarda le persone e l’esistenza è leggero e quasi senza peso come un volo di farfalla. Proprio per questo, la questione della parola resta aperta, perché determina cose dense e pesanti, cose complicate e piene di grovigli, cose importanti, cose primarie: determina vite. Ancor di più la parola determina multipli di singole vite: determina relazioni.
Sarà per questo che oggi faccio fatica a scrivere seduta alla scrivania, ho bisogno di incontrarvi per la strada, guardarvi passare, osservarvi nelle vostre giornate, all’ingresso di portoni, mentre aprite le portiere delle automobili o mentre vi tenete su col braccio al corrimano della metro.Ho bisogno di sentire il rumore dei vostri passi, la consistenza dei vostri respiri, i diversi timbri delle vostre voci. Le stesse voci con cui dite parole. Ho bisogno di ascoltarvi parlare. E le mani, vorrei guardarvi le mani, vedere come si muovono le dita, verso quale direzione e quando invece restano ferme. Tu, sì, tu che stai leggendo adesso. Come sono le tue mani? Ti somigliano, senza dubbio. Somigliano a quella parte di te, quella più autentica che chiede parola. Riesce a parlare? La fai parlare? Somiglia alle tue mani la tua parola?
Me lo domando spesso, quando mi guardo le mani, se il loro agire rispecchia le mie parole ed è proprio questa la domanda che volevo portare oggi nelle vostre case. Nessuna lezione da dare, ma domande da condividere. Perché il cuore della comunicazione è proprio questo. Il valore delle parole è uguale al valore delle azioni. La parola ha una forza inestimabile, una potenza evocatrice che crea e ricostruisce, anche mondi distrutti. Ma tutto il potenziale che risiede nella parola, diventa materia e si fa tangibile attraverso le azioni con cui testimoniamo la nostra parola. Sarebbe complesso e inutile addentrarsi dentro i meandri accademici dei significati e delle evoluzioni dei linguaggi, perché c’è un’immediatezza che ci investe, data dalla forza stessa della parola e da come segna, impasta e rivolta le nostre vite. Le nostre parole determinano il nostro destino. Non lo vedete? Non ne fate quotidiana esperienza?
Quante volte ne siete nati e morti sotto il peso? Sembra strano e accessorio, vero? Un’emissione d’aria che passa per le nostre corde vocali e che genera un suono: riuscite a immaginare qualcosa di più impalpabile e sfuggente tra le dita? Invece eccola davanti a noi, dietro le nostre storie, avanti a predire il futuro, la parola. Perché, secondo quello che diciamo, lei sa già come andrà a finire. Gli studiosi parlano di onnipotenza semantica della lingua, per spiegare che con il linguaggio si può parlare di tutto. Ma perché abbiamo cominciato a parlare finiamo per darlo per scontato, e come tutte le cose che abbiamo e diamo per acquisite, scivoliamo senza consapevolezza col chiudere gli occhi su di loro. Abbiamo avuto bisogno di parlare perché da soli non ci bastavamo, perché avevamo bisogno di aiuto, perché avevamo bisogno di scambiare utensili e calore.
Perché avevamo bisogno di portare in luce e agli altri i sentimenti che avevamo dentro. Abbiamo cominciato a parlare perché siamo relazione e ogni relazione nasce dalla conoscenza. Prima abbiamo prodotto suoni che erano imitazione di azioni che volevamo comunicare agli altri, poi di secolo in secolo abbiamo stabilito parole che erano simbolo di azioni e bisogni e stati d’animo che ci era necessario condividere. E se siamo riusciti ad intenderci è stato per un patto, per un accordo in cui chi parlava e chi ascoltava attribuivano lo stesso significato ad una parola. Oggi abbiamo mezzi potenti e supporti e una dimestichezza con la parola che era inimmaginabile in passato. Eppure abbiamo chiuso gli occhi e confuso il senso e stirato in un manto superficiale un tessuto profondissimo che si radica fin dentro le nostre ossa. Diciamo cose in luogo di altre, profaniamo il significato delle parole, costruiamo ponti di parole non più per esporci e arrivare all’altro, ma per nasconderci,
E qui siamo messi tutti male, nessuno esente. Stiamo diventando degli analfabeti emotivi che truffano se stessi e gli altri, con l’ausilio di narrazioni che non tengono conto dell’accensione precisa che ogni frase avrebbe. Ho scoperto di recente che in sanscrito non c’era differenza tra parola e azione: una precisa parola corrispondeva ad un preciso gesto. Quei popoli non potevano neppure pensarli i nostri mezzi comunicativi, ma avevano compreso l’essenziale e lo onoravano, perché era essenziale alla sopravvivenza. Noi invece, sicuri nelle nostre case, pieni di password e antifurti e codici di accesso, crediamo di non averne più bisogno. E ce ne andiamo danzando diritti verso l’apocalisse, perché la sopravvivenza che è in gioco non è più soltanto quella fisica, no, siamo messi peggio: è in gioco la sopravvivenza dell’anima, dei legami, della stessa sostanza relazionale che ci ascrive come esseri umani. Cosa chiami dolore? Cosa definisci gioia? Cosa intendi quando dici faccio? Cosa e con cosa prometti quando prometti? Tutto ciò che diciamo a noi stessi, agli altri, è una rappresentazione del nostro pensiero e occorre che abbia valore perché possiamo guardarci ed essere guardati per il valore che siamo, che potremmo essere.
Per questo ci servono le mani, perché è con le mani che serviamo le parole con cui veicoliamo noi stessi. È un esercizio duro, per tutti, ma non c’è altra via per esistere e incontrarci. Ricominciamo a usare ogni parola dopo che l’abbiamo conosciuta, dopo che ci è passata per il setaccio delle mani, quando sono state le nostre dita ad imprimere nel cemento fresco della realtà il calco fedele delle nostre parole. E quand’anche scegliessimo di dire e poi riporre in tasca le mani, la parola, che non accetta inganni, ci vincerebbe comunque per sottrazione, perché le nostre mancate azioni racconterebbero ancora tutto di noi. Rivelandoci. Malgrado noi. Le nature profonde non dimenticano mai se stesse, le parole non dimenticano mai il loro significato. Le parole sono nate per portare in luce il mondo ombroso delle apparenze, sanno condurci fuori dalla caverna, sotto il cielo dove splende la luce del vero. Le parole hanno il potere di spostare le montagne, ma sono le mani a scavare concretamente la terra. Possono guarire, illuminare, cambiare il mondo, possono trasformare le nostre esistenze, quello che basta è dare la luce del significato e il fuoco dell’azione: sto parlando delle nostre voci. Perché quello che diciamo può ancora essere il nostro profilo migliore, un profilo che albeggia di verità.