Almeno per questa volta, la rubrica che state leggendo non contempla la presenza di Kurt il Marziano e il perché di questa scelta è rinvenibile nell’estrema importanza e tecnicità dell’argomento che viene oggi affrontato e che non è – come il lettore potrebbe facilmente immaginare – l’analisi dei testi normativi approvati giovedì scorso dal Consiglio dei ministri per avviare la riforma Nordio, quanto piuttosto l’esame delle premesse di quella approvazione, la cui prima conseguenza sembra essere l’annuncio di una fine: quella della “guerra dei trent’anni” che ha caratterizzato il rapporto fra politica e magistratura dopo il passaggio traumatico dalla prima alla seconda Repubblica.
La necessaria brevità di questo mio intervento consente solo di prendere atto dell’accaduto, senza poterne analizzare a fondo le ragioni, ma è difficile non vedere – nel garantismo che caratterizza i primi episodi di questa riforma – un’inversione di tendenza rispetto alle modalità e alle tecniche fino ad oggi utilizzate per combattere la corruzione, intesa come la principale delle devianze che si manifestano nei rapporti fra autorità e libertà.
Quella devianza ha caratteristiche pericolose e sfuggenti, ma altrettanto pericolosi e sfuggenti si sono rivelati alcuni metodi per combatterla; quel che però impone oggi di cambiar regime è la scomoda constatazione per cui più penetrante diveniva il ricorso agli strumenti del solo diritto penale (inteso anche nei suoi aspetti procedurali) e più la corruzione si consolidava all’interno della complessa e violenta macchina apprestata e potenziata per combatterla.
Quel che però sembra aver spinto il ministro Nordio ad avviare la riforma nella giustizia in una prospettiva esattamente opposta a quella fino ad oggi dominante deve esser stata la constatazione del danno all’equilibrio fra i poteri dello Stato, prodotto dalla combinazione fra i diversi istituti su cui quella lotta poggia.
Infatti – se l’abbattimento della corruzione è un imperativo universale, un valore fondamentale di ogni società che ambisca ad una sana gestione delle proprie risorse e un’equa distribuzione delle ricchezze – nondimeno, gli strumenti giuridici impiegati per combatterla possono anche cagionar danni agli equilibri tra i poteri pubblici, sollevando questioni di proporzionalità e costituzionalità che spesso si sono voluti ignorare, nascosti come sono nelle pieghe di misure che colpiscono – senza andar troppo per il sottile – gli innocenti al pari dei colpevoli.
Valga un esempio per tutti: l’estensione del potere giudiziario, in particolare nelle indagini preliminari, che ha causato più di un disequilibrio con gli altri poteri, ponendo il potere esecutivo (e persino quello legislativo) in una posizione di oggettiva subordinazione rispetto al primo.
La ragione di questa subordinazione è semplice ed è anche priva di effettive basi costituzionali: sia il Parlamento che il Governo sono, con diverse modalità e differenti accenti, responsabili del loro operato; ma altrettanto non accade per le magistrature, gli inquirenti o giudicanti che siano (salvo per le fattispecie nelle quali risultino violate disposizioni sovranazionali, nel qual caso tale responsabilità non può escludersi attraverso fonti di produzione interna); per ragioni di carattere eminentemente politico, non si applica infatti ai Magistrati il principio generale del diritto eurounitario secondo cui la responsabilità segue sempre e comunque il potere di chi lo esercita, proprio come un’ombra incancellabile
Le ragioni di questa scissione, fra responsabilità e potere, risalgono ad alcune scelte effettuate in sede di Assemblea Costituente, il cui significato e la cui portata fu successivamente ampliata da letture erroneamente espansive del significato di quelle medesime scelte.
Allo stesso tempo, l’istituzione di organismi di controllo indipendenti ha contribuito più di una volta ad ulteriormente alterare il già precario equilibrio fra i poteri, poiché questi organismi possono operare anche al di fuori dei controlli e dei bilanciamenti tradizionali.
Si pensi all’Autorità Anticorruzione (in origine nata come organismo di controllo dei contratti pubblici, successivamente inglobata nell’ufficio anticorruzione, istituito nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri): quel che è accaduto con il Codice Appalti nel 2016 – interamente governato dalle linee guida adottate da tale Autorità – è un esempio che non si può non richiamare, perché ha messo il potere esecutivo di fronte alla drammatica alternativa di disapplicarne completamente le previsioni e le prescrizioni – per consentire alle diverse amministrazioni di continuare ad approvvigionarsi dei beni e servizi loro necessari – oppure di continuare ad applicarlo secondo le linee-guida fornite da quello stesso organismo, ottenendo così la paralisi di ogni attività negoziale.
Se quanto appena affermato è vero, la chiave per mantenere un equilibrio adeguato tra la lotta alla corruzione e la preservazione dell’equilibrio fra i poteri risiede nella proporzionalità delle misure adottate e prima ancora nella loro conformità a Costituzione, almeno nella parte relativa ai suoi Principi Fondamentali.
Sebbene sia essenziale perseguire e prevenire la corruzione, è altrettanto importante garantire che le misure adottate non violino tali ultimi principi, come il diritto alla difesa, la presunzione di innocenza e la reciproca indipendenza dei poteri di cui si è appena detto: quella lotta deve infatti contribuire a rafforzare, piuttosto che minare, la struttura democratica di ogni ordinamento che abbia la pretesa di regolare le attività di ogni Stato membro dell’Unione Europea, che ha addirittura liberato risorse finanziarie in favore dell’Italia perché il suo sistema di giustizia venga finalmente riformato e reso competitivo con quelli vigenti negli altri paesi dell’Unione.