martedì, 17 Dicembre, 2024
Il silenzio delle parole

Vento di Levante

In una lectio magistralis, tenuta ad Urbino nell’ottobre 2021, Stefania Auci, brillante scrittrice trapanese di fama internazionale e autrice del celebre romanzo I leoni di Sicilia (narrante la vita familiare e imprenditoriale dei Florio nella Palermo ottocentesca) centrava con maestria il tema del rapporto fra dialetto e lingua nazionale.

Lei lo fa con riferimento al dialetto siciliano, che indubbiamente detiene una posizione di assoluto riguardo nella cultura del bel paese. Lo fa navigando abilmente da Verga a Pirandello, da Sciascia a Camilleri. Quest’ultimo afferma: “Spesso le parole in italiano che adoperavo, non mi appartenevano pienamente. Nel linguaggio parlato di casa mia invece trovavo ristoro e quell’immediatezza che mi permetteva di essere ciò che sono”.

Concordo con Camilleri e con la Auci ma credo che questo ragionamento possa essere esteso al rapporto più generale lingua/dialetto, e in qualche forma e modo al rapporto fra lingua e gerghi territoriali o ambientali o di mestiere.

Nei miei viaggi siciliani è ormai d’obbligo l’invito a cena a casa di Giuliana, deliziosa fanciulla, mia lettrice fedele, che conobbi anni fa alla presentazione di un mio libro. Giuliana vive in riva al mare nel cuore del golfo di Palermo, e casa sua si affaccia sulla baietta dell’Arenella. Dalla sua abitazione, posizionata in piano alto, sono godibili tutte le suggestioni del golfo grande, e, in riva al mare, la tonnara Florio e, a pochi passi, Villa Igea, oggi grande hotel di fama, un tempo residenza di primavera estate della famiglia Florio, stagione che in quei lidi si protrae fino alla novembrina estate di San Martino.

Da casa di Giuliana si respira il mare e il cuore profondo della gente dell’Arenella.

La prima cena con Damiano e Paola, genitori della fanciulla, fu per me rivelatrice.

Damiano, in particolare, è uomo profondamente legato alla vita della borgata marinara. I suoi racconti si rincorrono ed è un bel gioco. Notoriamente non difetto in affabulazione, e fra noi il linguaggio diventa presto materia di reciproca seduzione intellettuale, le signore sembrano divertirsi.

Da quella sera, al godimento dell’Arenella, del mare e della dolcissima Giuliana si aggiunge l’io narrante di Capitan Damiano che, aiutato dalla piacevole consorte, mi disvela segreti, favole e scene della Sicilia che fu.

Conto su inviti futuri, i racconti non finiranno mai ed io sono un attento e appassionato ascoltatore di favole e realtà siciliane.

All’ultima cena una storia fra tante mi lasciò il segno.

Damiano racconta: “Incontro per strada l’anzianissimo Don Mimì, uomo di mare e di borgata: «Comu semu Don Mimì?». «Eh figghiu miu, sugnu arrivatu ri puninteddu ai marmurara».

Inutile lo sforzo di traduzione, neanche il più attrezzato dei sicilianisti potrebbe capire.

In questa frase, che mi accingo a tradurre, non c’è soltanto il dialetto siciliano, c’è la tradizione marinara che costruisce intorno all’esperienza del mare, nel tempo, il suo specifico linguaggio, fatto di vita, di donne e uomini, di metafore, di autoironia, così fortemente radicata nella cultura della Palermo profonda. Questa la traduzione letterale: “Eh figlio mio, spinto dal vento di levante sono arrivato alla fabbrichetta dei marmi”.

Una prima cosa è chiara, il marinaio fa sempre i conti con l’energia del vento e del mare, e la sua vita è così ispirata, e u puninteddu, spiega amabilmente Damiano, è il vento che da levante spira in direzione di ponente: il vento di Levante.

All’Arenella il vento che soffia dal mare in direzione di ponente proviene appunto da est, da dove tutte le mattine, a far tempo dalla Creazione sorge il Sole. Quel vento soffiando verso terra, in direzione di ponente, spinge la barca metaforica di Don Mimì verso ovest e giunge alla marmurara, fabbrichetta e negozio di marmi e pietre che fornisce il contiguo e prossimo cimitero dei Rotoli; direzione ponente appunto, alle falde del Monte Pellegrino, in quella striscia magnifica di terra fra monte e mare.

A marmurara, nel linguaggio di Don Mimì, è dunque l’ultima stazione a cui è giunta la sua barca esistenziale, posizione di passaggio, direzione cimitero.

Adesso dal linguaggio marinaro, al gergo dell’Arenella, al siciliano, giungiamo alla pedissequa traduzione logico-letteraria: “Figlio mio, la mia vita sospinta dal vento di levante è arrivata alla fabbrica dei marmi, presto passerò a miglior vita, la prossima fermata sarà la mia ultima destinazione, il Cimitero dei Rotoli”.

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