Le potenzialità del mercato cinese per le aziende italiane, le difficili decisioni delle Banche centrali e soprattutto la possibile politica economica del governo Meloni. Sono questi i temi su cui abbiamo intervistato il prof. Ubaldo Livolsi, banchiere ed advisor, esperto internazionale dei mercati finanziari.
Prof. Livolsi, il “fenomeno Cina” sta interessando studiosi e analisti già da alcuni anni. Ad un iniziale interesse prevalentemente focalizzato sugli aspetti legati al processo di liberazione dell’economia ed alle opportunità connesse all’incremento negli scambi commerciali e alla crescita del Pil cinese, i dati a disposizione sui principali indicatori economici del sistema cinese evidenziano uno sviluppo senza paragoni e può essere un mercato di sbocco per molte realtà italiane che potrebbero portare in Cina le attività di produzione più costose per lasciare in Italia quelle a più valore aggiunto. Potrebbe essere una soluzione per le tante imprese italiane e anche per i distretti industriali ormai ridotti ai minimi termini e costretti alla chiusura per il vertiginoso aumento dei costi di produzione?
La Cina sta vivendo un momento molto difficile. Secondo la Banca mondiale, il suo Pil quest’anno dovrebbe crescere soltanto del 2,8%, meno dell’8,1% del 2021 e del 5% stimato dall’istituto in aprile per il 2022. Qualche osservatore ha scritto che la vittoria della grande marcia verso il superamento dell’economia statunitense si allontana. Ha fatto scalpore che Pechino la settimana scorsa non ha comunicato il dato della crescita del Pil nel terzo trimestre. Il rinvio era legato all’apertura dei lavori del Congresso del Partito comunista cinese, durante il quale il presidente Xi Jinping ha poi ottenuto un terzo mandato da segretario generale. L’economia cinese ha sofferto un brusco rallentamento negli ultimi mesi, connesso alla crisi del settore immobiliare e agli effetti della politica di tolleranza zero verso il Covid-19. La congiuntura europea, con l’inflazione e la bolletta energetica a livelli record, hanno determinato un calo di domanda di prodotto dalla Cina, che vede comunque nell’euro un mercato fondamentale. In questo senso, le aziende italiane, in questo momento, stanno a guardare l’evoluzione della situazione, ma già negli ultimi anni le delocalizzazioni produttive si stanno spostando verso Paesi dove il costo del lavoro è più basso e le regole anti-Covid meno stringenti, come per esempio è il caso del Vietnam, il cui Pil quest’anno secondo l’Fmi salirà del 7%. Nondimeno, la Cina rimane un mercato irrinunciabile, fatto di 1,4 miliardi di consumatori, tra cui 500mila super ricchi. Inoltre, l’utilizzo delle nuove tecnologie e di Internet, sui cui Pechino ha investito massicciamente, costituisce un volano straordinario per l’import/export tra Italia e Cina. Vorrei ricordare che la settimana scorsa si è tenuto a San Marino un appuntamento voluto dal locale governo – dove siamo stati relatori col nostro partner Alberto Conforti – in cui Alibaba, la multinazionale cinese che rappresenta la più grande piattaforma mondiale B2B, ha presentato alle forze produttive locali la possibilità di fare import/export col lontano Paese orientale. Al di là di ciò, la tendenza sarà quella, come sto sperimentando anche con la società da me presieduta, di andare verso partnership sia produttive che commerciali con operatori locali.
Le banche centrali hanno commesso errori, sono andate lunghe nell’immettere soldi per l’emergenza pandemica. Ma la guerra è arrivata imprevista e ha esasperato l’inflazione, che ora la Fed sta combattendo. La storia dirà se le banche centrali hanno avuto ruolo importante in questi anni difficili e se hanno agito bene, lei cosa ne pensa?
L’obiettivo della Fed e della Bce di mantenere l’inflazione sotto controllo è giusto. Sia Washington che Francoforte devono oggi rispondere alla critica di aver agito troppo tardi. Solo lo scorso novembre, la presidente della Bce Christine Lagarde dichiarava improbabile un aumento dei tassi nel 2022. Invece quest’anno la Bce ne ha già annunciati due, che secondo alcune previsioni contribuiranno a portare l’Europa sull’orlo della recessione. Per molti osservatori, con l’inverno alle porte e la drastica riduzione delle forniture di gas russo, il rischio della stagflazione è sempre più probabile. L’istituto governato da Jerome Powell non è stato tempestivo, forse doveva partire prima. A lungo c’è stata la convinzione che l’aumento dell’inflazione negli Usa fosse dovuto ad una crescita dei consumi e dell’occupazione, e che prima o poi si sarebbe naturalmente sgonfiata, ma ciò non è avvenuto. Difficile era anche decidere quale fosse il momento giusto per l’organizzazione presieduta da Christine Lagarde perché, diversamente da quella statunitense, l’inflazione europea è più connessa all’impennata del costo dell’energia e delle materie prime.
Alla lunga hanno gravato, sia di qua che di là dell’Oceano, gli ingenti stanziamenti pubblici a sostegno delle politiche anti-Covid. È importante ricordare che le Banche centrali, che sono indipendenti, non possono dettare le scelte economiche di un Paese, che spettano alla politica. È quindi fondamentale che le decisioni di quest’ultima siano responsabili e attente alle dinamiche dalla macroeconomia. Guardiamo al caso di Liz Truss, la premier britannica che si è dovuta dimettere ed è stata a Downing Street per soli 44 giorni, a causa della sua scelta avventata che ha costretto la Banca centrale di Londra a intervenire con l’acquisto straordinario di titoli di Stato.
Ad innescare il crollo del valore dei bond e della sterlina era stato il piano del nuovo governo guidato dalla Truss di tagli fiscali da 45 miliardi di sterline, a favore dei redditi più alti, privo di coperture e per il cui finanziamento si prevedeva il ricorso a debito aggiuntivo. In questo senso sono fautore di una maggiore determinazione per la ricerca di una visione e di una volontà di intenti comuni tra quelle delle Banche centrali e quelle delle istituzioni politiche mondiali, sulle scelte e strategie, non solo di breve, ma anche di medio periodo, come quelle per contrastare l’inflazione e la probabile recessione, e in una lunga prospettiva, quella per la conversione energetica, il clima e la siccità.
Il Pnrr è centrale per il futuro del Paese poiché fornisce un impulso decisivo per la sua strategia di crescita. Proprio per questo, il nuovo esecutivo dovrà confrontarsi con diverse criticità ad oggi sottaciute nel dibattito politico, quali sono le maggiori?
Il Governo presieduto da Mario Draghi – che ha ricevuto la stima di tutti i leader europei all’ultimo summit Ue dove è riuscito a far passare la linea italiana del prezzo dinamico del gas – aveva rispettato tutti i tempi e gli obiettivi del Pnrr. Il Pnrr non è la Bibbia, in alcuni ambiti può essere anche rivisto e adattato in particolare per quanto riguarda la sua declinazione per la complessità amministrativa e gli effetti dell’inflazione. Più in generale sembra che l’impostazione data dal nuovo presidente del Consiglio sia di assecondare la collaborazione con l’Europa. I segnali sono evidenti, Antonio Tajani, europarlamentare per cinque legislature, due volte commissario e per due anni presidente dell’Assemblea, sarà a capo della Farnesina.
A guidare il ministero dell’Economia è stato chiamato Giancarlo Giorgetti, grande estimatore di Mario Draghi, del cui Governo ha fatto parte quale ministro dello Sviluppo economico. Certamente Palazzo Chigi si trova di fronte a un momento delicatissimo, con l’inflazione che sale, i prezzi che aumentano, la gente che fa fatica a riempire il carrello della spesa, le aziende che vedono nero. C’è anche il rischio di forti proteste sociali. Tuttavia, credo che debba fare ben sperare il fatto che all’Economia è stato nominato Giorgetti, con cui condivo l’idea che lo sviluppo del nostro Paese dipenda in modo fondamentale dal suo sistema produttivo, in particolare quello manifatturiero e dei servizi, che crea reddito e occupazione, e che deve essere al centro della politica economica.
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