Apro il dizionario “Il Nuovo De Mauro” e alla chiave di ricerca Uomo d’onore trovo un’ardita definizione: è “Uomo d’onore nel gergo mafioso, chi fa parte della mafia”.
Così, dai romanzi sull’epopea della mafia siciliana, ai film ad essi ispirati, ai dizionari, una parte della cultura nazionale ha assecondato e continua ad assecondare la triste sovrapposizione di un feroce fenomeno criminale ad un’antica cultura popolare, stigmatizzandone l’identificazione.
Una strategia surrettizia, non esclusivamente interna alla mafiosità, ha addirittura cercato di porre le radici del fenomeno delinquenziale dentro il mito storico siciliano delle associazioni segrete, ben narrato nell’opera di Luigi Natoli, la trilogia de I beati Paoli. Associazioni che amministravano giustizia a tutela del popolo contro poteri stranieri e soprusi arbitrari, modello non distante da quello massonico, o successivamente carbonaro, sorto in particolare nel centro-nord d’Italia dal Rinascimento in avanti, nel solco della nascente borghesia e delle rivoluzioni industriali e democratiche ma assolutamente distante da un progetto di delinquenza organizzata al servizio del malaffare di settori delle classi dirigenti.
L’obiettivo dell’identificazione dei costumi delle cosche mafiose con quelli del popolo ha avuto sicuramente successo, e così lingua, costumi e valori popolari divennero genericamente Mafia, mentre la Mafia, nel secondo dopoguerra mondiale tentava gradualmente di farsi Stato.
Ma il tempo è galantuomo e la verità storica, pur faticosamente, si è affermata, consacrata in sede giudiziale, oltre che storiografica. La Sicilia fra sangue e infamia ha saputo rialzarsi grazie alla spinta dei suoi eroi, divenendo terra di antimafia nemica feroce del patto politico-mafioso.
Torniamo al DNA storico, culturale ed emotivo dei siciliani, quello autentico, alla verità storica dell’Uomo d’Onore che in Sicilia consiste in un’idea elementare: la forza dell’uomo è da ricercarsi nella sua reputazione e rispettabilità, nel suo essere uomo giusto e affidabile, uomo di parola a cui guardare come riferimento, nel ruolo di guida di una comunità.
In tal senso mi sovviene ancora una volta un messaggio pedagogico di mio padre, un aneddoto che amo citare frequentemente e che è divenuto uno dei primi insegnamenti trasmessi per via orale ai miei tre figli.
Lui, vecchio uomo d’onore siciliano, socialista e liberale, mi sottrasse fin da piccolo alla suggestione culturale egemone di quel significato malavitoso di cui eravamo tempestati sistematicamente sui media ma non infrequentemente nelle sedi della cultura, e mi impose quello dei siciliani onesti. Con voce solenne e sguardo severo di quando affermava cose importanti mi portava alla quasi ipnosi e diceva: «Non dare mai la tua parola d’onore, piuttosto firma un contratto. Un contratto si può sciogliere, se invece dai la tua parola d’onore e poi non la rispetti cessi di essere un uomo».
E mia figlia Susanna, notoriamente mia alter ego familiare, alla quale dedico con amore questo mio articolo, si emancipò abilmente sfruttando un mio impegno, legato un po’ affrettatamente a parola d’onore che necessariamente dovetti mantenere. L’effetto fu tuttavia benefico e Susanna divenne libera, a 19 anni, delle sue scelte di vita.
Ma andiamo oltre la velenosa querelle pan-siciliana, guardiamo al mondo, richiamiamo i signori che maneggiano cultura al valore storico, generale e antropologico del concetto d’onore. Potremmo scrivere a tal proposito La grande Storia dell’onore e del valore umano, essa ci racconterebbe tante declinazioni spazio-temporali, in tutte le epoche e in tutti i territori, dalla difesa dell’onore della patria a quella dell’onore della donna, dal senso civico e pubblico del dovere e del sacrificio al significato del rispetto del ruolo gerarchico e di comando, molto forte in alcuni paesi asiatici, e che dire della cultura dei mitici Pellerossa delle valli e delle montagne del Nord-America.
L’Uomo d’Onore non è uomo di mafia, è vero piuttosto che chi organizzò quel potere criminale seppe vilmente usare la cultura di un popolo antico declinandola in chiave delinquenziale, a favore di quella delinquenza fondata sulla intimidazione e sulla violenza contro il proprio popolo, ai danni del quale agiva, in modo organizzato e protetta da grandi mezzi economici e da settori della politica e dello stato.
Fatte queste opportune, quanto elementari precisazioni, invito i redattori dei dizionari a menzionare nei loro testi in primis la versione civile dei significati; e soltanto in secundis, in via eventuale e se opportuna, la variante volgare o deviata.
La cultura s’impegni insomma a scoprire l’autenticità delle storie dei popoli, in Sicilia come ovunque nel mondo.