Pur sapendo, Kurt, che la pandemia dei nostri giorni nulla ha a in comune con il colera, Egli ha preteso che intitolassi questo episodio delle “Cronache” ai contagi che a suo tempo ispirarono a Gabriel Garcia Márquez la storia di una relazione tanto freneticamente erotica, quanto lungamente infelice (GGM, L’amore ai tempi del colera, Milano,1985).
Ma quel che più mi ha sorpreso è stata la ragione per cui il Marziano ha suggerito questo titolo; una ragione meno banale di quello che potrebbe sembrare a prima vista: “perché suona bene!” mi ha detto seccamente e tanto è bastato a convincermi.
Tutto quello che sto per raccontare è nato da un bell’articolo di Michele Ainis (MA, la forma dell’obbligo, ne La Repubblica, 27 novembre u.s., p. 1) ove sono richiamate le parole di Paul Valery, a mente delle quali “la politica è l’arte di impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda“.
Un Poeta dunque ha offerto del rapporto fra governanti e governati una delle più incisive descrizioni che si possano dare del fenomeno politico e delle ragioni per cui i sistemi elettorali sono considerati tanto importanti al fine di sostenere l’una o l’altra forma di esercizio della sovranità, mentre nel pensiero del Poeta sono poco più che pia illusione di partecipare all’esercizio del potere.
I giuristi – molto distanti dai poeti – usano invece allocare la sovranità all’interno della distinzione fra forme di Stato e forme di governo, spingendo la loro analisi fino a stabilire una relazione causa-effetto fra queste ultime e i sistemi elettorali pensati per presentare Stati e governi come “democratici”; ma non è di questo che Kurt intendeva parlare, quanto del fatto che – ormai – le persone sono talmente abituate a veder limitate le proprie libertà, da subire ogni sorta di limitazione ai loro comportamenti, senza più reagire alla violazione dei diritti che la comunità internazionale prima e gli ordinamenti nazionali poi sono venuti elaborando dal secondo dopoguerra ad oggi.
Posto il problema in questi termini, la pandemia altro non è che ennesima occasione per torcere le libertà già conquistate a prezzi altissimi e così avviene che più il tasso di democrazia dei governi appare elevato, più incisivi sono i sacrifici imposti alla libertà dei singoli in nome della salvezza collettiva.
E la politica come entra in tutto ciò?
C’entra nella misura in cui – da strumento capace di individuare le premesse per l’uso del potere, le tecniche di esercizio di quest’ultimo e i controlli sull’uso che se ne fa – diviene mezzo per far dimenticare quelle premesse, quelle tecniche e quei controlli, sforzandosi di indirizzare i cittadini ad occuparsi d’altro.
Storicizzando la questione, potremmo dire che, nell’Italia repubblicana, la politica ha conosciuto tre fasi: una prima operante secondo le regole della democrazia parlamentare disegnata dall’Assemblea Costituente per essere trasfusa nella Carta fondamentale; una seconda, nata dalla resa che il Parlamento presentò al potere giudiziario riformando le proprie guarentigie, senza fare altrettanto rispetto ai giudici e – soprattutto – ai pubblici ministeri che lo tenevano sotto schiaffo in nome di quell’obbligatorietà dell’azione penale che tanti danni ha prodotto all’idea stessa di giustizia e una terza fase – recentissima-che ha visto il Parlamento autoriformarsi, riducendo vistosamente il numero dei propri componenti senza prima riformare il sistema elettorale e solo per questo indebolendo il proprio ruolo rispetto agli altri poteri dello Stato.
Il risultato più vistoso di quest’ultimo pasticcio è stato l’allontanamento degli elettori dal voto e quindi la nascita di un partito di maggioranza assoluta che abbiamo più volte chiamato “il partito che non c’è”.
Oggi però anche i militanti (a loro insaputa) del partito che non c’è iniziano a far sentire la loro voce in forme diverse da quelle della partecipazione politica: sono segnali diversi e disordinati, qualcuno li confonde addirittura con le questioni di ordine pubblico che riguardano l’infiltrarsi di pochi facinorosi nei cortei di protesta.
Potrebbe allora darsi che si sia all’alba – non della terza – ma della quarta fase che vivrà questa nostra rattoppata Repubblica: la fase della presa di coscienza – da parte della maggioranza assoluta dei cittadini – dei propri poteri, prima ancora che dei propri doveri.
Quando ho esternato queste mie riflessioni a Kurt, l’ho visto sorridere: forse perché Lui – viaggiando nel tempo – può già sapere come andranno effettivamente le cose; io resto però dell’idea che siamo all’alba di un mattino che farebbe ripetere a Confucio l’augurio con il quale si accomiatava dai Mandarini del suo tempo.
Diceva: ”che Tu possa vivere in tempi interessanti”, per parte mia non saprei immaginarne di migliori.