lunedì, 25 Novembre, 2024
Considerazioni inattuali

Non ricominciamo la guerra dell’Artsakh

Così Simone Weil nel 1937 intitolava il suo saggio: Non ricominciamo la guerra di Troia; affermando con il rigorismo assolutista e caratterizzante il suo spirito che a costituire vera fonte di pericolo fosse un dato di fatto incontrovertibile, un assioma coadiuvante i conflitti più feroci nel corso della storia: tutti privi sic et simpliciter di un obiettivo definito. Un tratto comune delle guerre apparentemente paradossale in superficie, ma forse in realtà una brillante e più profonda esegesi dell’epoca moderna. Anche perché più attuale di così non si potrebbe, dato che il conflitto dell’Artsakh (o Nagorno Karabakh), da cui il titolo, è avvenuto tra il settembre e il novembre del 2020. O meglio, il 27 settembre dello scorso anno se ne è riaperto un nuovo tragico capitolo tra Armenia e Azerbaigian nella regione del Nagorno Karabakh (antica provincia armena di Artsakh): la cui storia ha attraversato due millenni dopo i primi dissidi immediatamente successivi alla prima guerra mondiale e ad origine del conflitto odierno, che in oltre trent’anni dal suo inizio nel 1988 non ha mai trovato risoluzione concreta.

 

IL CONTROLLO DELLA REGIONE CAUCASICA

Si tratta forse in questo caso dell’eccezione che conferma la regola di Weil; perché la motivazione di questo feroce scontro ultratrentennale sembra esserci ed estendersi: l’obiettivo si radica infatti nel controllo della piccola regione caucasica, che nell’88 scatenò le rivendicazioni da parte della Repubblica Armena dell’allora regione azera benché popolata in maggioranza da armeni. La guerra che ne sfociò nel 1991 tra l’indipendente Repubblica dell’Azerbaigian e l’Armenia si concluse con l’occupazione militare armena del territorio in seguito agli accordi per cessare il fuoco. Tregua che è stata nuovamente ma soltanto formalmente firmata anche una seconda volta, dopo la “Guerra dei quattro giorni” del 2016 tra Nagorno Karabakh e Armenia da una parte e Azerbaigian dall’altra: scaturigine di morti quotidiane di civili e militari sulla linea del fuoco, da cui entrambe le parti si accusano vicendevolmente di non rispettarne il regime di requie. Accordo firmato l’ultima volta nel novembre 2020 tra Azerbaigian, Armenia e Russia per cessare il fuoco nel Nagorno Karabakh e perché l’Armenia sconfitta cedesse inoltre anche la regione del Kelbajar: dove si trova una grande miniera d’oro divisa dal confine ed ipso facto oggetto di contesa.

 

IL PARCO-MUSEO DELLA MORTE

Se l’obiettivo di guerra è acclarato, non lo è invece la motivazione di quella che può considerarsi una gratuita umiliazione nazionale subita dalla Repubblica Armena ad oggi aprile 2021, dopo la morte di oltre 6000 persone in sei settimane di lotta. Il Presidente azero Ilham Aliyev si è reso infatti primo spettatore e visitatore di una sorta di macabro ‘museo di trofei’: ovvero centinaia di elmetti, attrezzature appartenute ai militari caduti in guerra e addirittura manichini in cera rappresentanti le truppe armene. Il parco-museo della morte sarà presto aperto al pubblico nonostante le proteste ed i richiami alla barbarie hitleriana. Ed a quella Banality of evil di cui scriveva Hannah Arendt: tanto miserabile, meschina da passare quasi in sordina; proprio come in effetti è successo, dal momento che in troppi ne ignorano ancora scientemente o meno l’accaduto nei suoi grotteschi risvolti.

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