È diventata più virale del Covid-19, la crisi: sanitaria, sociale, politica, occupazionale, culturale.
Ma c’è qualcosa di più profondo. Da oltre un anno, infatti, conviviamo con la crisi sanitaria. Ne è derivata, come evidenziano gli episodi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Italia, paesi profondamente legati tra loro, non solo da buone relazioni culturali e diplomatiche, un’autentica trasformazione senza “trama”, a differenza di quelle dell’800 e del ‘900, già analizzate dagli storici.
Il 15 maggio 1891, non a caso, ebbe luce l’Enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII: “L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale…” mentre “(…) uomini turbolenti e astuti si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli”.
Il termine crisi indica “uno squilibrio traumatico e poi, più in generale, uno stato più o meno permanente di disorganicità, di mancanza di uniformità e corrispondenza tra valori e modi di vita” (Voce “Crisi”, Vocabolario Treccani): l’Occidente dimostra, da tempo, di camminare bendato su più squilibri, in attesa di ritrovare un’armonia progettuale e valoriale.
Una fragilità che, soprattutto in Italia, evidenzia alcuni aspetti patologici, sia sul piano pratico sia sul piano identitario, e che si interseca con la crisi di fiducia: degli Elettori verso le Forze politiche, del Parlamento verso il Governo, del Governo verso la Burocrazia, degli Imprenditori e Risparmiatori verso la tenuta Sistema bancario…. e così via.
Una spirale di perdita di fiducia che ha il suo punto di origine nella crisi e perdita di sicurezza nel mondo del lavoro.
I dati disponibili relativi alle aspettative di famiglie e imprese e quelli relativi al mercato del lavoro raccontano che i costi economici e sociali del Covid-19 saranno enormi: impatti paragonabili a quelli delle più grandi crisi dell’ultimo secolo.
I rimedi sanitari per uscire dall’emergenza pandemica cominciamo a conoscerli: ma serve anche una adeguata produzione culturale e valoriale per ripartire anche sugli altri fronti della crisi, rivedendo i nostri sistemi di giustizia sociale. Negli USA il numero di disoccupati ha raggiunto 10 milioni in poche settimane, dato questo destinato a salire nel breve periodo. In Paesi dove il “paracadute sociale” è più attivo la situazione non è meno preoccupante: il 31 marzo 2021 è alle porte e gli imprenditori non hanno cassa per mantenere forza lavoro inoccupata da tempo.
È necessario un ridisegno e servono imminenti strategie operative per dare nuovo impulso alla Responsabilità Sociale dell’Impresa (RSI), in termini di “fiducia”. Un articolo (“Coronavirus is putting Corporate Social Responsibility to the Test”) apparso recentemente sull’Harward Business Review suggerisce che le imprese sono chiamate a ripensare ai propri obiettivi sociali e ambientali per poter rispondere in maniera adeguata a questa crisi.
Come sostenere i più vulnerabili?
Lo studio condotto dal Politecnico di Torino, Utilitalia, Elettricità Futura e Terna su “Lo smart work nel settore delle utilities. Cosa è cambiato con la pandemia Covid-19” (gennaio 2021) oltre ai benefici individua precise aree grigie che meritano un approfondimento e tra queste i temi della vulnerabilità e dell’equità: distributiva, procedurale e relazionale.
Il disequilibrio, in particolare, relazionale, non è un effetto collaterale.
Inebriati dall’idea che lo smart work sia non solo la soluzione contingente all’emergenza sanitaria ma anche il nuovo modello occupazionale per il futuro, sulle spinte dei rinnovati processi produttivi, stiamo trascurando una adeguata analisi sui suoi rischi: gli esclusi dal processo!
Il modello economico che si sta velatamente e velocemente espandendo, per effetto o grazie alla pandemia sanitaria, radicalizza, sul piano dell’analisi sociale, l’appartenenza al contesto e ceto produttivo di cui si è espressione: non a caso, più si è nella fase esecutiva, più digitalizzazione e smart work rendono performanti gli output a beneficio del sistema economico che efficienta risorse e mezzi, capitale umano e capitale economico con una insolita traslazione della catena produttiva, dall’ufficio a casa: e così si acquista la fiducia di non essere tra gli esclusi.
Ma i trade off bilanciati richiedono anche osmosi per non generare crisi e perdita di fiducia.
Ed invece se apparentemente questo nuovo modello sembra apportare benefici e qualità della vita, è del tutto evidente che, come tutte le radicalizzazioni, sul piano sociale e relazionale, offre il fianco ad una considerazione di ovvio buon senso: è in atto un disequilibrio dell’equità auspicata e nuove fragilità da esclusione (gli ultimi!).
Guardando, infatti, i pilastri della nostra Costituzione, all’esito della grande crisi vissuta con la seconda guerra mondiale, ed il retroterra culturale che ha consentito alla nostra civiltà di spiccare il volo e determinare il boom economico degli anni ’60, le libertà fondamentali di cui agli artt. 13 e ss. della Costituzione (Alessandro Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Lezioni; Cedam) sono state il perno della società costruita nel più recente passato: in sintesi, il riconoscimento da parte dell’ordinamento, giuridico ed economico, della piena liberta di autodeterminazione della persona umana, fermi i doveri sociali ex art. 2 Cost., la pietra angolare del 900. Non a caso, per motivi sanitari, queste libertà sono state compresse come nella seconda guerra mondiale.
L’esercizio pieno di tutte le libertà ha permeato, anche grazie al contributo vitale tanto del mondo cattolico che laico, la società consentendo una fruttuosa osmosi tra sistemi e persone: l’equità distributiva, procedurale e relazionale quale metodo per la crescita che si andava a costruire.
Nell’acuirsi della crisi e in assenza di fiducia sta rapidamente prendendo piede, radicalizzandosi, un inconsapevole senso di esclusione e disequilibrio dell’equità relazionale; un “nuovo corporativismo digitale” con l’effetto di ripristinare, sotto tutt’altra veste e forma usi e comportamenti abrogati per effetto della soppressione dell’ordinamento corporativo (es. art. 1 e 5 della c.d. “Preleggi”).
Il termine “usato, in senso estensivo, per indicare la politica rivendicativa ristretta e settoriale seguita da associazioni o gruppi di lavoratori.” (Voce “Corporativismo”, Enciclopedia Treccani) è destinato ad una trasformazione di senso, di portata e quindi significato.
Lo stesso mondo cattolico stenta a operare una riflessione organica sugli accadimenti che stiamo vivendo; “(…) ci parrebbe di mancare al nostro ufficio tacendo”: così l’Enciclica riteneva di dover affrontare il tema dei rimedi alla crisi di quei tempi.
Non più destinato ad esprimere una “Dottrina politico-sociale che realizza il principio della collaborazione tra le classi e le categorie sociali” (Voce sopra cit.), si affaccia l’idea di un corporativismo proteso a identificare (per non sentirsi esclusi!) una appartenenza e dimensione lavorativa del tutto materialistica incapace di permeare la società e di favorire una libera osmosi tra sistemi e persone.
Si preannuncia non tanto l’assenza di un futuro “ascensore sociale”, notoriamente ormai fermo da anni, quanto la necessità di dover appartenere a nuove corporazioni rappresentative dei propri bisogni nell’era del digitale al fine di poter sopperire ad una assenza di equità relazionale e agli affanni della crisi occupazionale, accelerata e resa drammatica dalla crisi di fiducia e dalla paura di essere ultimo.
Nell’impossibilità, per laici e cattolici liberamente formati, di permeare la società con il proprio impegno professionale e sociale, saranno sempre più i vertici delle nuove forme di corporazione a contendersi estremizzando l’efficienza produttiva della base lavorativa in assenza di equità relazionale.
Con l’evidente rischio di una alienazione conflittuale rispetto alla prospettiva, a cui eravamo educati (laici e cattolici, in modo del tutto convergente), che il lavoro è la piattaforma che realizza l’uomo come individuo e nella sua appartenenza alla società concorrendo al fine-bene superiore quale anelito e sublimazione della propria anima.
Ci sono già elementi sintomatici di questa saldatura verso un nuovo corporativismo efficientista dell’era del digitale: l’onda lunga della globalizzazione del mercato parte sempre da lontano.
E non a caso si assiste in Italia, per un verso, a spinte preordinate ad un ritorno a sistemi elettorali di tipo proporzionale e, per altro verso, alla incapacità di dare apertamente il giusto peso e prospettiva di responsabilità valoriale al voto di fiducia espresso da alcuni Senatori a vita, in particolare Liliana Segre e Mario Monti, che pur nella loro diversità di esperienza di vita, rappresentano ed esprimono un senso di impegno verso la società e le istituzioni, tale da generare non tanto un debito politico, quanto piuttosto un debito valoriale di chi ha incassato quel voto colmando un vuoto limitandosi a cogliere solo l’aspetto quantitativo e non qualitativo di quel voto. Questo è non saper “cogliere” un altro “caposaldo” della crisi orizzontale che stiamo vivendo.