La Banca del Giappone rompe gli indugi e porta il tasso di riferimento allo 0,75%, il livello più alto degli ultimi trent’anni. Una mossa attesa dagli analisti ma comunque dirompente nel panorama globale, dove molte banche centrali stanno rallentando la stretta monetaria. A Tokyo, il governatore Kazuo Ueda ha spiegato che l’aumento di 25 punti base segna un nuovo passo nel percorso di normalizzazione dopo decenni di politiche ultra-espansive, sostenuto da un’inflazione che da mesi supera il target del 2% e da una dinamica salariale considerata più solida. La reazione dei mercati asiatici è stata immediata: il Nikkei ha guadagnato circa l’1%, trainando le principali piazze della regione, che hanno letto la decisione come un segnale di fiducia nella tenuta dell’economia giapponese. Anche i rendimenti dei titoli di Stato sono saliti, con il decennale che ha superato la soglia del 2% per la prima volta dal 2006. Paradossalmente, però, lo yen si è indebolito. Il cambio con il dollaro è scivolato oltre quota 156, complice l’aspettativa che la Federal Reserve mantenga una postura più restrittiva rispetto alla BoJ, riducendo l’appeal della valuta nipponica nel breve periodo. Gli operatori restano inoltre cauti: sebbene il rialzo fosse previsto, il mercato teme che ulteriori strette possano frenare una crescita già fragile. Il Giappone si trova così in una posizione singolare: rialza i tassi mentre altre economie valutano pause o tagli, e allo stesso tempo osserva la propria moneta indebolirsi. Una combinazione che riflette la complessità di un’economia ancora sospesa tra inflazione persistente, consumi deboli e la necessità di uscire definitivamente dall’era dei tassi zero.



