Mi sono interrogata spesso su quale fosse il compito primario della poesia, che ancora oggi da radice e sostanza ad ogni letteratura umana, perché ne è la madre. La poesia precede la scrittura, si tramandava di
bocca in bocca, facendosi patrimonio e memoria di popoli e nazioni. La poesia non è soltanto una rappresentazione della manifestazione improvvisa o meditata di un sentimento.
La poesia è un altro modo di dipingere la bellezza, perché è nella ricerca del suono e della forma della parola giusta che si fa proprio questo: dipingere con la parola e con i suoi suoni quello che ha colpito i sensi del poeta. Per questo è necessario comprendere che amore, bellezza e parola sono figli dello stesso ventre e si nutrono vicendevolmente.
La poesia iraniana è un argomento che merita molto più spazio e importanza di quella che gli viene ordinariamente concessa, perché è una testimonianza fedele della storia di un popolo che il regime ha volontà di scarnificare della sua identità, da nemico e odiatore, quale è, di ogni forma di bellezza. Abbiamo di recente visto quanto i signori del male e la loro demoniaca gendarmeria vogliano uccidere l’amore: Astiyazh Haghighi e il suo fidanzato Amir Mohammad Ahmadi, entrambi poco più che ventenni, erano stati arrestati all’inizio di novembre, dopo che era stato divulgato in rete un breve video del loro ballo sotto la torre Azadi a Teheran, e infine condannati a 10 anni di carcere ciascuno.
Perché? Perché il male travestito da legge non permette, non può assolutamente permettere, che l’amore si manifesti, che mostri la sua bellezza, perché questa è una potenza e una forza futura che minaccia il regime stesso, perché è foriera di libertà, di dignità, di orgoglio, incendia gli animi e li incoraggia a dire no alla distruzione. Oggi, per sottrarre zolle allo sfregio che avanza, (perché spezzare l’abbraccio di quei due ragazzi è un atto vandalico) oltre che un assassinio senza cadavere, desidero raccontare i fondamenti della millenaria poesia persiana, che sempre si è abbeverata alla fonte dell’amore, che mescola corpi e anime per farne pasta divina.
Quella iraniana è una forma di poesia che ha origini nella cultura persiana e che è stata influenzata da altre culture come l’arabo, il turco e il greco. La poesia iraniana è caratterizzata da versi lunghi e complessi, con un uso ricco di metafore e simboli. I poeti iraniani più famosi che parlano d’amore sono Rumi, Hafez, Saadi e Omar Khayyam. Tutti e quattro hanno scritto poesie romantiche che riflettono la profondità dell’amore. Hafez, in particolare, nato nel ‘300, è ancora oggi molto popolare, tutti ne sanno recitare lunghi passi a memoria, e si dice che in ogni casa non devono mancare il suo “Canzoniere” e il “Corano”. Hafez è stato celebrato in Occidente per primo da Goethe, che si ispirò alla sua opera per la composizione del “Divan occidentale-orientale” (1819).
La raccolta completa della sua opera comprende cinquecento poemi (o “ghazal”)nei cui versi l’amore carnale convive con quello ideale e mistico, l’amato e Dio si scambiano continuamente le parti, come vediamo anche nella poesia greca. Scrisse: “Non morirà mai chi nel cuore non ha che amore.” A Shiraz, la tomba di Hafez, immersa nel verde dei Giardini di Musalla è oggetto di pellegrinaggio costante: i persiani donano fiori e leggono le sue liriche, perché vi ritrovano la loro memoria e la loro identità, oltre che la bellezza, la musicalità e la perfezione delle composizioni classiche. E trovano un poeta che “anziché essere un uomo perfetto, è perfettamente umano” (Baha al-Din Khorramshahi).
Per i poeti l’amore è quindi un modo di fare esperienza del divino attraverso l’, incontro tra due esseri umani, fatti di carne, sangue e anima e nessun amore è mai contro Dio, questo è un delirio diabolico di regime. Il poeta Rumi del ‘200 nei sui versi canta la fusione nell’incontro d’amore, la meraviglia di diventare una cosa sola “siamo una sola anima tu ed io, siamo a un tempo lo specchio e il volto”. Ma la poetessa che più è vicina al valore non solo salvifico, ma vivificante dell’amore, che ha cantato e rivendicato nell’essere donna la perfetta simmetria e il medesimo valore del maschile, nella vita, come nell’amore è Forough Farrokhzad, la più grande poetessa iraniana del’900, nata nel 1935 e morta a soli 32 anni.
I suoi versi sono meno simbolici, non cercano il rifugio dell’allegoria con cui si può mascherare la più spregiudicata intenzione, quando la censura affina le sue lame. Lei non accetta potature ai suoi versi e alla sua vita, divorzierà da un uomo che non ama più e questo le costerà non poter più vedere suo figlio, ma la capacità di amare di Forough ha valicato gli argini dell’arresa e della disperazione (tenterà tre volte il suicidio), divenendo altro amore che la porterà ad adottare un bambino figlio di lebbrosi. Bernardo Bertolucci volerà in Iran per intervistarla. Durante la rivoluzione islamica i suoi libri vennero bruciati in piazza. Voglio ricordarla con questa poesia, che oggi dedico a due ragazzi che ballavano sotto una torre in Iran.
LA CONQUISTA DEL GIARDINO
Quel corvo che volò
Sopra di noi
E s’inabissò nel pensiero agitato di una nuvola vagabonda,
Il cui grido, come una corta lancia, percorse tutto l’orizzonte,
Porterà la notizia di noi in città.
Tutti sanno,
Tutti sanno
Che tu ed io da quel pertugio freddo e tetro
Intravedemmo il giardino
E da quel ramo ameno e impervio
Spiccammo la mela.
Tutti temono,
Tutti temono ma tu ed io
Ci unimmo con la luce, l’acqua e lo specchio
E non tememmo.
.Io non parlo di un fragile legame tra due nomi
Né di un vincolo nelle pagine lise di un registro.
Io parlo dei miei voluttuosi capelli
E degli ardenti papaveri dei tuoi baci,
Dell’intimità clandestina dei nostri corpi
E della nostra nudità che riluce
Come le squame dei pesci nell’acqua.
Io parlo della vitalità argentina di un canto
Che una piccola fontana intona all’alba.
.Una notte, domandammo alle lepri selvatiche
In quella foresta verde e frusciante,
Alle conchiglie copiose di perle
In quel mare agitato e freddo
E alle giovani aquile
In quel monte straniero e trionfante:
Che si deve fare?
Tutti sanno,
Tutti sanno.
Noi abbiamo penetrato il freddo muto sogno dei Simorgh,
Cogliemmo la verità nel piccolo giardino
Nell’espressione timida di un fiore anonimo
E l’eternità in un momento senza fine
Quando due soli si fissano l’un l’altro.
.Io non parlo di sussurri timorosi nel buio,
Io parlo di luce del giorno e di finestre aperte,
Di aria fresca,
Di un forno nel quale bruciano cose inutili,
Di terra resa fertile con un’altra coltura,
Di nascita, di evoluzione, di orgoglio.
.Io parlo delle nostre mani innamorate,
Che hanno gettato, al di sopra delle notti,
Un ponte foriero di profumo, di luce, di brezza.
Vieni nel prato,
Nel prato aperto
E invocami attraverso i sospiri del fiore di seta,
Come la gazzella la sua compagna.
.Le tende traboccano celato odio
E le candide colombe
Dall’alto della loro torre bianca
Fissano in basso la terra.