Il tragico incidente di Corso Francia, nel quale hanno perso la vita, mano nella mano, le sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli mi ha profondamente turbato.
Mi ha turbato, innanzitutto, come genitore: ed esprimo tutta la mia solidarietà e il mio cordoglio alle famiglie delle due giovani vittime per quello che, indubbiamente, è il dolore più forte, indelebile, indicibile: sopravvivere ad un proprio figlio.
Mi rimbomba nel cervello l’urlo del papà di Gaia: «Non ho più una ragione per vivere».
Un dramma, una tragedia, che nessun progresso, nessuna evoluzione potrà mai scongiurare.
Penso con terrore a quello squillo di telefono, nella notte tra sabato e domenica, proprio all’inizio delle feste natalizie.
Allo shock della notizia ricevuta – che nessuna delicatezza nel porgerla avrà avuto il potere di attenuare – ed all’ancora maggiore trauma derivante dal linguaggio della notizia “diffusa”. Di un processo mediatico che si è intentato da subito, raccontandosi di “due ragazze uccise” e ponendosi immediatamente l’accento, prima di ogni accertamento sulla situazione reale, sui possibili elementi negativi – stato di ebbrezza, uso di droghe, un Suv che un ventenne non avrebbe potuto guidare, la velocità eccessiva – alla ricerca del “mostro”: senza il quale l’attenzione scema alla rassegnazione di fronte a un fato crudele, a un “incidente” senza un colpevole da additare al pubblico ludibrio.
Mi ha colpito la grande compostezza delle famiglie vittime della tragedia, la ricerca, invocata dalla mamma di Camilla, non usuale al tempo d’oggi, di «giustizia, non vendetta».
Ma anche il comportamento della famiglia del ventenne Pietro Genovese, conducente dell’auto investitrice: il pensiero rivolto dall’inizio al dolore delle famiglie di Gaia e di Camilla; la sensibilità nel modo di porgere la loro “pietà”, nel senso cristiano del termine; la sobrietà nell’evitare, nonostante la notorietà del regista a Paolo Genivese, qualsiasi commento.
Anche la famiglia Genovese è, in una diversa dimensione, sconvolta. Forse essa, pur risparmiata dal dolore per un figlio perduto, ha un compito più delicato.
Il provvedimento di arresti domiciliari di Pietro Genovese ha fatto emergere un “concorso di colpa”. Le notizie di stampa stanno evidenziando un quadro diverso da quello delle prime ore. Da qualche parte, sfumato forse il “mostro”, si cercano altri colpevoli: la pubblica amministrazione per la scarsità dell’illuminazione e la mancanza di autovelox; la “gioventù bruciata” (che era più della mia epoca che dell’attualità) che porterebbe ad improbabili giochi coi semafori, ai quali personalmente non credo.
Le tre famiglie sono comunque condannate ad una ulteriore pena: quella di un processo, che, per le parti, è già una punizione di per sé.
L’augurio è che vi sia sensibilità nell’accusa e nelle parti civili; ma anche nella difesa.
Un procedimento in cui si tenti di ricostruire quanto avvenuto, si ricerchi la verità di ogni singolo aspetto.
Ma col reciproco rispetto, che deve caratterizzare una dialettica necessariamente costruttiva come quella processuale, dove si parla per arrivare ad una conclusione, ad una sentenza giuridica, non ad una condanna morale: per vite che sono già distrutte, che nessuna sentenza, di nessun tipo farà ritornare a vivere.