Quando mio padre mi chiamava Pinocchio, sapevo di non aver detto una bugia: non ne avevo motivo, dato il rapporto di complicità che ci legava e ci lega – né constava con la mia natura; con lui, con tutta la mia famiglia, ho sempre parlato liberamente e di qualunque cosa. Ma l’appellativo aveva un peso specifico: per me, per noi significava che non avevo voglia di fare qualcosa che avrei dovuto fare oppure che avevo ceduto all’indisciplina. Non è sempre stato il mio tallone d’Achille, anzi; ho presto imparato, da vispa Gianburrasca, non a soggiacere appunto (perché il termine rispettare non renderebbe altrettanto il senso) a tutte le regole più sciocche che spesso s’impongono per il gusto di renderle tali ad un bambino – ma ad aggirarle, perché necessità fa virtù e l’esercizio d’arguzia aguzza l’ingegno. Quello necessario a sopravvivere nel mondo dei ragazzi: con tutti gli agenti esterni alla famiglia che lo compongono, dalla scuola all’ambiente sportivo.
SETTE IN CONDOTTA
Ecco, ho avuto anche i miei momenti da dieci in condotta – ma non li ho mai ritenuti di particolare soddisfazione, da anticonformista naturale quale sono sempre e fieramente stata. Per il resto, mi ha sempre salvato anche a scuola la grinta, un forte senso di giustizia, la necessità di far valere i meriti e le ragioni – che è ben diversa dalla sindrome da primo della classe – e poi soprattutto la passione per la scrittura, per l’italiano, la filosofia: la voglia di conoscenza. Tutte cose che mettevano in secondo piano l’indisciplina: che parlassi molto, troppo con le compagne – che giocassi a pallone e partecipassi all’organizzazione di scherzi degni di Amici miei di Monicelli con i compagni. E quando mio padre poi a casa, col mio voto basso in condotta, mi chiamava Pinocchio, non c’era troppo rimprovero nel suo sguardo: un po’ perché quella natura era una sua eredità (e probabilmente molto più spiccata della mia) – un po’ perché come intonava il Geppetto di Comencini sul suo Pinocchio e mio padre con lui: “Chi mi dice di ascoltarlo, chi mi dice di punirlo/ ma non so che cosa fare, non è facile educare/ Debbo dirvi in confidenza che com’è non mi dispiace: m’è riuscito proprio bene più lo vedo e più mi piace.” In effetti, ci siamo sempre piaciuti: anche nelle parti di padre e figlia, che a volte s’invertono, in quelle di complici che ridono fino alle lacrime e che si sostengono sempre a vicenda.
TUTT’E DUE LE COSE
Intanto, io mi sono sempre chiesta perché non si potesse essere entrambe le cose. Sia nel dovere che nel piacere. Ed ho sempre fatto in modo che i due coincidessero, piuttosto che ostacolarsi. Chi è veramente brillante – ammesso che io lo fossi – dovrebbe brillare in tutto: negli studi, come nel gioco, nel divertimento. E perché non si dovrebbe essere brillanti nel divertimento? Così leggendo il mio amato Pinocchio, per cui ho sempre nutrito un grande sentimento di solidarietà, ogni volta mi chiedevo: “Perché non posso eccellere negli studi e pure andare lo stesso a giocare con gli amici al paese dei Balocchi?” Proprio non capivo, per quanto mi sforzassi, perché le due cose dovessero porsi in antitesi e perché quel grande amico che era Lucignolo dovesse essere così biecamente denigrato. Gli volevo proprio bene a Lucignolo, come succedeva a Pinocchio. Ne avrei avuti anch’io poi di amici Lucignoli. E non riuscivo a trattenere le lacrime quando una volta diventato asino, moriva tra le braccia del suo amico burattino, mentre entrambi lavoravano – uno volente per riscattarsi, l’altro per forza di cose quale somaro – dal fattore.
L’ANIMA NEL MECCANISMO
Eppure una cosa non esclude l’altra: l’attitudine all’emozione, alla passione è propria di un individuo in tutti i campi, in tutte le sue scoperte. Tra l’altro recentemente le neuroscienze hanno stabilito che la ricerca, il gioco ed il sesso attivano le stesse endorfine. Ciò che non dovrebbe stupirci, è che ad ognuno di questi aneliti vitali, è ciascuno di noi ad attribuire una diversa anima. Lo spirito è ciò che ne modifica l’essenza: ciò che reca dignità al meccanismo, che gli dà un’etica, che dunque lo rende umano e ricco di principio e di desiderio al contempo. La voglia di vivere è il suo moto propulsore: lo stesso che poi anima il pezzo di legno da cui prende forma Pinocchio. Suo padre lo intaglia, lo definisce, lo perfeziona – ma è soltanto la sua volontà nella commistione con le sue attitudini alla vita che spingono la fata ad identificarlo come una persona. I suoi sentimenti: gli sbagli come i lampi d’acume lo rendono umano – poiché soltanto un burattino, tenuto in movimento per mezzo di fili, avrebbe ubbidito per sempre. E soltanto un disobbediente può muoversi da solo.