Il Senatore Saverio De Bonis (Gruppo Misto, “componente MAIE”, eletto col M5S), ha rivolto nei giorni scorsi un’interrogazione parlamentare alla Ministra Guardasigilli, Marta Cartabia, sulle limitazioni alle riprese video e sul divieto di diffondere immagini con audio del maxiprocesso “Rinascita Scott”, iniziato a gennaio nell’aula bunker di Lamezia Terme.
Il parlamentare ha chiesto alla Ministra se fosse a conoscenza che il Tribunale di Vibo Valentia (Pres. Dott.ssa Brigida Cavasino) avrebbe autorizzato riprese in video, solo a telecamere fisse e con divieto di mandarle in onda fino al momento della lettura della sentenza, consentendo solamente la messa in onda di brevi video del processo, ma senza audio. Si tratterebbe, secondo l’interrogante, di gravi limitazioni al diritto di cronaca, che il Ministro dovrebbe ripristinare con iniziative dirette.
Il presupposto dell’interrogazione è il silenzio che circonderebbe il maxiprocesso: che non sarebbe divenuto un evento mediatico proprio per quelle limitazioni.
Un processo, però, allorché diviene un evento mediatico inevitabilmente comporta una trasposizione dello stesso dall’aula giudiziaria al video. Dove, non vigendo le garanzie processuali, si determina facilmente la gogna determinata da un moralismo solamente di facciata: che è di per sé immorale, allorché giudica e condanna aprioristicamente.
Allora è bene ricordare che le garanzie processuali sono poste proprio a tutela della verità: è solamente garantendo al “mostro” tutte le garanzie e riconoscendogli tutti i diritti che il giudice può pervenire al suo verdetto. Se così non fosse, se al “mostro” per la nefandezza ed infamità dei fatti che gli vengono addebitati, non gli fossero riconosciute quelle garanzie, si darebbe solamente un linciaggio.
Il processo “Rinascita Scott”, nonostante i suoi grandi numeri, non ha per imputato il fenomeno mafioso, ma le 325 persone imputate: ciascuna delle quali, indipendentemente dalle accuse che le vengono rivolte, gode della presunzione d’innocenza e di tutte le garanzie costituzionali della difesa.
Si può – si deve, anzi, avere – la repulsione verso la mafia ed appoggiare e chiedere che il fenomeno venga sempre ed ovunque combattuto. Ma, paradossalmente, non si tratta di una battaglia da combattere nelle aule di giustizia, dove deve essere solamente accertato se il comportamento di una determinata persona realizzi la fattispecie di un reato. A scanso di equivoci è bene ricordare da subito che già la mera partecipazione ad una associazione mafiosa è, giustamente, reato: «Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni» (art. 416-bis cod. pen.).
Insomma: sta al giudice stabilire, nel rispetto di tutte le garanzie, se un determinato individuo sia colpevole anche solamente del reato di appartenenza ad una cosca; mentre sta all’opinione pubblica condannare il fenomeno in sé ed isolare e denunciare comportamenti avvertiti come mafiosi.
Il diritto di cronaca, a mio avviso (mi è stato detto che uso spesso questa locuzione nei miei scritti: lo faccio per ricordare che propongo mie opinioni, assolutamente opinabili), non esce in alcun modo limitato dal provvedimento del Tribunale di Vibo Valentia.
Il cronista non è in alcun modo limitato nel suo diritto di riportare nel dettaglio quanto avviene nel corso del processo ed alcuni organi di informazioni lo fanno con grande attenzione e puntualità.
Il processo c’è anche senza immagini video. Ed il diritto di cronaca pure.
Se andate sul sito di “LAC”, importante e seguitissima emittente calabrese, trovate non solamente una cronaca attenta e puntuale, ma anche dibattitti, interviste, servizi.
Ciò che manca è veramente la “gogna”: quella possibilità di fare un processo mediatico, magari inconsapevolmente: situazione nella quale possono incappare anche giornalisti che in buona fede non lo vorrebbero (magari c’è qualcuno, in mala fede, che la cerca).
Non ho dubbi sulla risposta della Ministra Cartabia, che sarà assolutamente coerente con la Costituzione e col giusto equilibrio tra il diritto di informazione e le garanzie processuali.
Ho due considerazioni finali che derivano, ahimè, dall’età.
La prima è il ricordo della trasmissione caposcuola di ogni cronaca processuale televisiva, quel “processo per stupro”, ripreso dal vivo nel Tribunale di Latina e mandato in onda, “in seconda serata”, il 26 aprile 1979, con la famosa arringa dell’indimenticata amica e collega Tina Lagostena Bassi (presso la quale avviò la sua pratica forense, bellissima e giovanissima, Iole Santelli, anche lei indimenticabile). Processo ripreso dal vivo, ma trasmesso in differita, dopo la sentenza: e forse, proprio per ciò, addirittura più efficace.
La seconda è l’immagine di Arnaldo Forlani ripreso durante un incalzante interrogatorio da parte del p.m. Antonio Di Pietro e trasmesso in TV il giorno stesso: l’impaccio dell’uomo politico e la bava che ad un certo punto gli spuntò sulla bocca (messa in primo piano da una ripresa non a telecamere fisse), forse influirono sulla fine della Prima Repubblica più della sentenza stessa (credo che si trattasse del processo Cusani).
E mi interrogo, tanto più oggi, se quell’evento storico, forse comunque ineluttabile, sia stato un bene o un male.