Oggi Enrico Letta verrà proclamato segretario del PD con voto unitario, come si usa ora a qualsiasi livello politico.
Enrico Letta – che ha indubbie qualità e capacità personali che lo pongono in grado di guidare efficacemente il Partito Democratico – non ha conquistato la segreteria dopo una battaglia con altri concorrenti, né a seguito di elezioni primarie. Nulla di tutto ciò, nessuno dei conflitti politici che sono ricordo ormai di anni che appaiono remoti e che avevano, ovunque avvenissero, un duplice effetto benefico: forgiare i militanti e rendere più vivo il partito per la cui conquista si lottava.
Enrico Letta è stato nominato da quelli che hanno un potere concreto nell’ambito del Partito Democratico, ma che sono incapaci di governarlo contro e a dispetto dell’opposizione di correnti di minoranza.
Così, ripetendo un modello che ha funzionato a livello nazionale con la scelta di Mario Draghi, i maggiorenti del PD, nelle “segrete stanze” – che il grillismo post-streaming “bersaniano” ha reso oltre che segretissime anche fideiste, prevedendo la soluzione classica del “deus ex machina” per le questioni più spinose -, hanno designato il nostro.
Fumata bianca già avvenuta, riducendosi la proclamazione prevista per oggi soltanto al cerimoniale “nuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam”.
Un segretario, Enrico Letta, che nelle sue esternazioni (soprattutto via social) promette di non vivacchiare e che, certamente, ha qualche idea – da “consumato democristiano” (così Gianfranco Rotondi, che di democristiani se ne intende) – sulla conduzione del partito.
Non riuscirà a risolvere, però, il problema della sinistra che è quello di sempre: dare una unitarietà alle differenti anime che la compongono e che porta ciascuna di esse a radicalizzarsi su singoli temi al punto che, piuttosto che concedere qualcosa al “compagno” che propone una sfumatura differente, preferiscono autoannullarsi: forti di un primato morale ed ideologico, che ciascuna di esse presuntivamente ritiene essere una sua esclusiva.
Problema che nel PD significa stabilire una identità ancora incerta.
Non ci riuscirà perché non possiede un potere conquistato rompendo equilibri ed imponendo alla minoranza la forza della democrazia, ma perché è egli stesso il frutto di un equilibrio delicatissimo: che permarrà fino a quando la sua funzione di garanzia seguirà l’ideale filo sospeso nel vuoto.
Azione che, quindi, sarà condizionata e che si limiterà a dare una unitarietà politica alla partecipazione del PD al Governo Draghi, ma che non vedrà neppure da lontano gli obiettivi di una unione progressista perseguiti dalla sinistra fin dalla Prima Repubblica.
Pochi ricorderanno il tentativo del 1993 di “Alleanza Democratica”, “cerchiamo ciò che ci unisce non quello che ci divide”: movimento politico “trasversale” italiano nato nell’ottobre 1992 dopo la crisi di credibilità politica conseguente a “mani pulite”.
Progetto che vide uniti i popolari per la riforma di Mario Segni, i repubblicani, e autorevoli esponenti del PDS, dei Verdi, dei radicali, del mondo cattolico progressista: io ci credetti moltissimo e conservo la tessera n. 1106.
Ma che fallì perché si era posto come formazione guida della sinistra, determinando il rifiuto del PDS, che a tale ruolo non era disposto a rinunciare.
Il resto è storia: i moderati che sarebbero stati attratti da una Alleanza Democratica forte e coesa, spaventati da un PDS egemone ripiegarono su Forza Italia.
Berlusconi fu per il PDS quello che Beppe Grillo fu per Matteo Renzi: un outsider (chiedo scusa al Presidente Draghi per il termine inglese) che ne travolse le aspirazioni.
Storia che si ripete e che si contorce su se stessa.
Così quando, senza dichiararlo, Matteo Renzi aprì il PD (che era nato non come successore del PDS, ma come evoluzione della Margherita, che avrebbe dovuto unire liberali, cattolici, democratici e ambientalisti) all’elettorato moderato, ottenendo consensi enormi, venne combattuto dall’interno, trovando proprio nella sinistra il diniego al referendum su una riforma costituzionale che poteva avere un senso, ma che fu usata per distruggerlo.
La citazione di Matteo Renzi ci riporta ad Enrico Letta ed allo sgarbo da questi subìto: sgarbo che è stato anche un grave errore politico.
La storia già “letta” del PD ci sembra perciò grigia, nonostante le qualità di Enrico Letta. Qualche spruzzo di potere qua e là, ma conservatorismo puro, cecità verso gli impulsi di questo inizio millennio, che non sono gli stessi della prima metà dell’Ottocento: e altri tabù che soltanto un leader dotato di potere proprio potrebbe superare. Ma che, se affrontati da un uomo di garanzia, determinerebbero l’ennesima frattura.