Strano partito il Pd. Se Renzi non se ne fosse andato, a quest’ora sarebbe acclamato segretario, dopo le dimissioni di Zingaretti. E invece come possibile successore del Presidente della Regione Lazio si profila proprio quell’ Enrico Letta, la vittima più illustre del tornado renziano nel 2014: era Presidente del Consiglio e fu liquidato da Renzi in quattro e quattr’otto.
La storia non si fa con i se e con i ma. E quindi lasciamo perdere.
Un problema però Renzi lo ha lasciato aperto nel suo ex partito. Quando uscì per fondare Italia Viva non fu seguito da tutti quelli che lo avevano sostenuto come segretario .Una parte dei suoi amici, alcuni anche personali e di vecchia data, non condivise la scelta della scissione e rimase dentro il corpaccione del Pd. È stata proprio quella componente a porre mille paletti a Zingaretti nel tentativo di formare il Conte 3 e sono proprio loro a rendere oggi difficile una soluzione unitaria che vedrebbe in Letta il candidato ideale, se non altro per accompagnare il partito al congresso nel 2023.
Paradossalmente il Pd è oggi più spaccato di quanto non lo sarebbe se Renzi, rimanendo nel Nazareno, fosse oggi chiamato a dare una linea per salvare il Pd da un declino che sembra inarrestabile.
Perché questo groviglio di contraddizioni? La rottamazione renziana fu un tentativo , maldestro nel metodo ma valido nell’ispirazione, per portare una ventata di novità nel partito e liberarlo da vecchi lacci e lacciuoli trasformandolo in una moderna forza riformista. Renzi sbagliò ad umiliare un intero gruppo dirigente nel tentativo di sostituirlo solo con la sua persona. L’errore grave fu duplice: non aprire il partito all’esterno a che non aveva mai votato Pd e a non fare crescere una nuova classe dirigente politica fuori dal culto della personalità del leader.
Per questo la rivoluzione renziana è rimasta incompiuta e, come tutte le operazioni che si perdono per strada, ha lasciato più macerie che nuove costruzioni.
Il Pd non si è mai liberato dell’odio-amore verso Renzi e la sua indubbia capacità di movimentismo e anche di ideazione, seppur confusa, di nuove identità possibili per una forza politica giunta al capolinea e bisognosa di rifondarsi.
Troppo facile per gli avversari di Renzi accusarlo di voler portare il Pd a destra, troppo semplicistico per i suoi sostenitori rinchiudersi in una ristretta area identitaria senza tentare di dialogare con le altre componenti e provare insieme ad andare oltre il correntismo, veleno per quel partito.
Ora però l’ora delle verità è giunta. Il Pd sa di avere un destino segnato se rimane così com’è senza una vera unità interna, senza una visione condivisa e senza una nuova classe dirigente che segni la discontinuità con il passato.
Per liberarsi dell’ombra di Renzi, le persone più intelligenti del Pd dovrebbero riprendere ciò che era “buono” del renzismo gettando alle ortiche il resto. Rifondare una sinistra senza nostalgie per il passato, avere il coraggio di mettere in discussione vecchie certezze a partire dalla presunzione di essere i migliori, quelli “diversi dagli altri”, tagliare cordoni ombelicali con parte della magistratura e un sindacalismo che ha fatto il suo tempo, tornare per strada parlando con la gente comune e non solo con i ceti medio alti, usando un linguaggio comprensibile fuori dal paludato eloquio tipico degli apparati., mandare in soffitta nome e simbolo e schierare in prima fila un gruppo dirigente giovane libero dai pesi della storia contorta Pci-Pds-Ds-Pd che gravano troppo sulla memoria dell’attuale partito.
Avranno il coraggio di farlo?