Natale è passato. E con lui, a ruota, il capodanno e l’epifania. La sensazione più evidente che emerge tra la gente è la variazione di velocità. Feste attese, a cui siamo arrivati a strascichi, come verso un’oasi dopo tanta arsura, e con un procedere incerto, scandito da anticipazioni e conferme di limitazioni e divieti.
Tutto appariva rallentato e, nella nostra mente, l’idea della scelta, del “fare visita a chi”, del “festeggiare con chi”, ci avalla davanti a diversi bivi, ognuno foriero di un’esclusione. In quei giorni di incertezza sembrava non si arrivasse mai alle agognate festività. Eppure tutti eravamo in affanno. In questo senso le passate feste appaiono un emblema dello stato di molte delle nostre esperienze quotidiane. Tanta fatica eppure progressi lenti, esiti incerti, sono evidenze che si raccolgono a mucchi in un tempo in cui trema lo status quo che abbiamo acquisito e difeso, ma di cui andiamo via via perdendo il contenuto. Viene fatto domandarsi cos’erano le nostre feste negli anni passati e cosa queste significassero all’origine. Perché serpeggia il sospetto, oltre l’oggettiva tristezza dell’infeltrimento di presenze forzato dalle ordinanze di governo, che ci siano mancati i lustrini copiosi della festa e che questa si stia molto riducendo ad un’evasione dalla reale condizione dei rapporti che intercorrono tra i festeggianti. Queste feste sono venute a dirci che siamo poveri. Sono venute a metterci di fronte allo specchio dei nostri legami parentali, di quanto questi siano fragili o di quanto abbiano bisogno della spinta di un evento rituale, per far muovere in avanti un bisogno d’incontro, un “ricongiungimento”, per usare un termine oggi diffuso, ma di cui non si indaga profondamente il significato. Con questo non intendo fare un’asserzione che svilisca o ignori la bellezza e la pienezza di quelle famiglie che sono riuscite a costruire legami solidi e profondi, vicinanze autentiche che godono, ma non abbisognano, di attendere le feste per dirsi e darsi; anche per loro le distanze obbligate hanno costituito un dispiacere, ma non hanno scalfito presenze che radicano sempre all’interno, nel tempo lungo della coltivazione. Queste persone non hanno sentito l’eventuale mancato ricongiungimento come un’amputazione o come l’occasione persa e, temo, perché dietro il senso di un’occasione persa ci sia la somma di tanti, troppi giorni persi, in cui avrebbe dovuto, potuto, essere natale, capodanno, epifania e non lo è stato. Più brutalmente detto, costretti dal pugno duro della manovra di contenimento del contagio del covid-19, se puoi condividere una festa solo con due persone e non sai chi scegliere, o hai molti rapporti di autentico legame o ne hai molti di apparente legame, quindi un’equivalenza di figure emotive che testimonia o tanta ricchezza oppure tanta povertà. Escludo, volutamente, tutte le persone che hanno manifestato l’amore attraverso la cura di una distanza autoimposta dai loro cari, perché più vulnerabili rispetto alle conseguenze di un possibile contagio. In quei luoghi del cuore è salvo ogni rito, perché tutto ciò che ha significato drena cura, attenzione, e in quei legami, fertili di vita, natale non è altro che simbolo di un habitat che permane, non passa allo sfoglio del calendario. Non ho la competenza né ambisco a stabilire chi appartiene a quale delle due categorie sopra esposte, semmai mi riguarda una preoccupazione e una speranza orizzontali, tanto per la mia esistenza, quanto per quella di chi legge. La preoccupazione è che le feste che abbiamo vissuto nella nostra vita si siano trasformate in stordenti baccanali, in cui è necessario essere in molti per avere tempo di guardarci poco ognuno e che ci siano molte luci e molto cibo e pacchi regalo con grossi fiocchi, voluminosi, perché ci serve un forte bombardamento dei sensi che basti ad appagare il desiderio, a riempirci la pancia, perché da troppo non ascoltiamo la nostra anima e quella degli altri nel profondo. Allora serve il clamore della carovana, e non la solennità della processione, per riuscire a stare vicini gli uni agli altri con piacevolezza. La speranza è che il senso di questo natale, sollecitato dalle privazioni, ci induca a ripensare il significato dei festeggiamenti. Cosa vuol dire essere insieme, essere in comunione nella festa? Vuol dire porsi allo stesso livello di osservazione e attesa spirituale ed emotiva verso ciò che sottende il festeggiamento. Il natale, significa letteralmente “nascita” e simboleggiava, anche in epoca pagana, ciò che Gesù Cristo rappresenta per i cristiani: Dies Natalis solis invicti, giorno di nascita del sole invinto, la rinascita del sole dopo il solstizio d’inverno, il trionfo della luce sulle tenebre. Il capodanno ribadisce il significato della rinascita dopo la chiusura di un ciclo annuale, che non vuol dire dimenticanza del vecchio, ma consapevolezza dell’esperienza perché si rinnovi nel frutto. L’epifania è la manifestazione della divinità in forma visibile, attraverso il Bambino ai magi, e può indurci a riflettere su quanto ciò che di sacro si manifesta nella vita vada accolto con meraviglia e onorato, con oro, per celebrarne la regalità, incenso, per riconoscerne la divinità, mirra, per ricordarci che il nostro corpo mortale può essere un tempio. Essere in società vuol dire essere insieme a persone che rispondono a pensieri che riguardano anche me, o esprimono una certa obbedienza a bisogni per i quali io vivo, vuol dire condividere una natura identica, istanze che esistono in tutti gli esseri umani. Quando dei gruppi di persone discutono su questioni serie, elevate, la compagnia intera diviene conscia che il pensiero di ognuno si innalza allo stesso livello, si entra in una proprietà spirituale che riguarda tanto chi ascolta quanto chi parla. È questa unità di pensiero e di direzione che si innalza come un tempio sui cuori di tutti, elevando il significato dello stesso battito dentro un fine universale. Qui siamo in compagnia, qui gioiamo festeggiando delle stesse rivelazioni offerte da ogni giorno di festa. Prima però occorre avere singolarmente la disponibilità interiore a cogliere, e lasciarci guidare poi nella nostra vita, e obbedire al messaggio del rituale festivo. Ci riguarda tutti. È necessario fare in fretta. Presto ci saggerà l’anima la Pasqua. L’augurio tardivo che faccio a tutti noi è che sia davvero una
festa.