Se tutte le domande venissero accolte e i lavoratori regolarizzati restassero nel settore, a livello nazionale avremmo un incremento del numero di lavoratori domestici pari al +20,8%, con percentuali più alte nelle regioni del Sud. È questa la prima fotografia, positiva, rispetto a dati scoraggianti, del lavoro domestico in Italia, dopo la procedura di riemersione scattata nel 2020. Temi, problemi, possibili soluzioni sono contenuti nella ricerca: “L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia Rapporto 2020/2021 Punto di non ritorno”. A tracciare un primo bilancio mostrandone tutte le sfaccettature è infatti il “Network Non Autosufficienza. I luoghi della cura”, con una analisi che entra nel merito di un mondo del lavoro rimasto inspiegabilmente ai margini del dibattito nazionale mentre per il Paese è una vera emergenza sia per i lavoratori sia per le famiglie e, soprattutto, per le persone da assistere. “Quello del lavoro domestico e di cura”, scrive il Network della non autosufficienza, “è tra i settori con il più alto tasso di informalità in Italia, 57,6%, (dati Istat 2018)”. Secondo il: “II Rapporto annuale DOMINA”, (L’Associazione Nazionale Famiglie Datori di Lavoro Domestico), gli 849 mila lavoratori censiti dall’INPS (dati 2019) rappresentano meno della metà di quelli realmente impiegati, che invece superano quota 2 milioni.
“Per correttezza”, spiega nella sua analisi il Network, “quando parliamo di ‘lavoro domestico’ dovremmo sempre distinguere le diverse figure professionali, molto diverse tra loro. Basti pensare che rientrano in questo settore gli assistenti familiari che si occupano della cura degli anziani e dei non autosufficienti (badanti), ma anche i collaboratori domestici (colf), le baby sitter, gli addetti ai lavori di giardinaggio, cucina o manutenzione. In questo senso, purtroppo, le banche dati ufficiali non aiutano, riportando solamente la distinzione tra colf e badanti”. Fatta questa premessa è possibile mantenere la distinzione fondamentale tra “cura delle persone” (oltre alle badanti, anche baby sitter e accudienti) e “cura delle cose” (colf, cuochi, giardinieri, ecc.). Negli ultimi anni le due categorie hanno seguito dinamiche molto diverse, legate ai mutamenti sociali e demografici in atto. “L’aumento della popolazione anziana”, fa presente il Network della non autosufficienza, “e l’allungamento dell’aspettativa di vita hanno portato, infatti, ad una maggiore domanda di figure dedicate alla cura della persona, aumentate di oltre 100 mila unità in dieci anni (+39%). Contemporaneamente, invece, le figure dedicate alla cura delle cose sono diminuite (-31%), anche a causa della crisi economica”. Di conseguenza, le “badanti” censite dall’INPS sono passate dal 31,2% sul totale lavoratori domestici al 48,0%. Ma c’è un motivo per cui la situazione contrattuale ha un indice di informalità elevata, nel settore del lavoro domestico, il fatto dipende senza dubbio da svariati fattori, “non ultimi”, si rivela nel rapporto, “quelli di ordine culturale e sociale, tra cui la presenza di lavoratori extra-comunitari senza permesso di soggiorno disponibili al lavoro di assistenza e di cura”.
A causa del lockdown seguito all’emergenza Covid-19, la situazione si è ulteriormente aggravata, rendendo di fatto impossibile per i lavoratori irregolari continuare a svolgere la propria attività di cura e assistenza. Nella posizione più delicata si sono ritrovati gli stranieri senza permesso di soggiorno, che non avevano né la possibilità di lavorare né quella di rientrare in patria.
“Ne è nato un dibattito”, ricorda il Network, “che ha portato all’inserimento nel “decreto Rilancio” 2 dell’articolo 103, che riguarda proprio l’“emersione di rapporti di lavoro” in ambito agricolo, domestico e di assistenza alla persona affetta da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza”.
Al termine del periodo valido per la regolarizzazione: 1 Giugno–15 Agosto 2020; le domande presentate dal datore di lavoro sono state complessivamente 207.542, di cui 177mila nel settore domestico (85%). Tra questi, il 69,1% si riferisce a figure dedicate alla cura “delle cose”, mentre il restante 30,9% è costituito principalmente da persone direttamente beneficiarie della cura (22,5%).
A livello territoriale, il 90% delle regolarizzazioni si concentra in 10 regioni: le più interessate sono state Lombardia (47mila), Campania (26mila), Lazio (19mila) ed Emilia-Romagna (18mila).
Se tutte le domande venissero accolte e i lavoratori regolarizzati restassero nel settore, a livello nazionale avremmo un incremento del numero di lavoratori domestici pari al +20,8%, con percentuali più alte nelle regioni del Sud.
“La sanatoria rappresenta, in generale, uno strumento di politica migratoria quantomeno discutibile, dato che interviene “a posteriori” riducendo la presenza straniera irregolare, senza modificare i meccanismi che l’hanno generata”, si fa presente nel rapporto, “In altri termini, è l’emblema di una politica migratoria “emergenziale”: nel caso italiano, ad esempio, negli ultimi 30 anni sono stati regolarizzati attraverso le “sanatorie” oltre 2 milioni di immigrati già presenti sul territorio (Fondazione Leone Moressa, 2020)”
Peraltro, i benefici concreti della “sanatoria” sono innegabili, sia dal punto di vista sociale che economico. Innanzitutto, l’emersione di persone fino a quel momento “invisibili” aumenta la sicurezza pubblica, la fiducia nelle istituzioni e l’accesso ai servizi, migliorando la qualità della vita sia dei beneficiari diretti che dei quartieri in cui essi vivono. Inoltre, la regolarizzazione porta introiti diretti nelle casse dello Stato.
Nel “Rapporto DOMINA”, infatti, si ricorda il bilancio tra i benefici della regolarizzazione e i costi sostenuti per effettuarla. Innanzitutto, le entrate date dal contributo forfettario richiesto per la regolarizzazione (500 euro o 130 euro a seconda della modalità di presentazione) sono pari a 105,5 milioni, a fronte di 75,2 milioni di costi di gestione amministrativa, per un saldo pari a +30,3 milioni.
Inoltre, ogni lavoratore, una volta regolarizzato, porta nelle casse dello Stato anche contributi assistenziali e previdenziali, IRPEF e addizionali locali. Considerando le attuali classi di reddito dei lavoratori per ciascun settore, “DOMINA”, stima le entrate fiscali per i lavoratori domestici (314,2 milioni).
In realtà andrebbe considerato che i redditi di quei settori sono mediamente bassi, per cui molti lavoratori si trovano al di sotto della no tax area (addirittura tutti quelli del comparto agricolo); inoltre andrebbero considerati gli effetti indiretti dovuti alle deduzioni ed al bonus DL 3/2020, per cui il vantaggio netto per lo Stato scende a 276,4 milioni di euro annui.
“Tirando le somme”, prosegue l’analisi di Network della non autosufficienza, “possiamo affermare che la regolarizzazione 2020 abbia rappresentato un primo passo verso l’emersione del lavoro nero in ambito domestico e di cura che, evidentemente, non riguarda solo gli stranieri, ma che non sia ancora sufficiente.
Secondo le stime fin qui presentate, l’emersione di 177mila lavoratori domestici potrebbe portare il numero di lavoratori regolari sopra quota 1 milione, ovvero appena la metà di tutti i lavoratori domestici e assistenti alla persona effettivamente attivi in Italia”.
Inoltre, le regolarizzazioni precedenti hanno dimostrato che limitare l’accesso ad alcuni settori, come fatto in questo caso, non impedisce la partecipazione anche da parte di chi non è realmente inserito in quel settore, determinando la creazione di contratti ad hoc destinati a durare solo pochi mesi, giusto il tempo di ottenere il Permesso.
“Per favorire una piena emersione”, si sottolinea nella ricerca, “il principio guida dovrebbe essere quello di rendere economicamente più conveniente il lavoro regolare, sia per il lavoratore che per il datore di lavoro, considerando anche i benefici sociali dati dall’emersione”.
Ad esempio, come chiedono da tempo le associazioni delle famiglie datrici di lavoro, occorrono strumenti a sostegno delle famiglie, come la deducibilità delle spese per l’assistenza, in maniera simile a quanto già avviene per le spese mediche.
“Come in molti altri settori”, si auspica infine nel rapporto, “dunque, la pandemia di Covid-19 può rappresentare un punto di svolta per ripensare radicalmente le politiche, affrontando problemi strutturali già presenti prima di essa. Sarebbe un peccato perdere quest’occasione”.