Quando a fermarsi, tirato per il braccio dalla morte, è un uomo così, la notizia viene inizialmente voglia di confutarla, di testare l’attendibilità della fonte, perché il manto spesso dell’incredulità sa fare bene il suo lavoro. L’incredulità, verso ciò che sembra impossibile possa accadere o da sopportare, copre bene gli occhi di fronte al masso centrale della verità e lascia evadere lo sguardo verso dettagli insignificanti che sembrano contraddire l’evidenza e offrono sponda al bisogno di fuga della mente. Questo meccanismo Pino lo conosceva bene e me ne ha parlato a lungo una volta. Cercherò dunque di tener conto dei suoi insegnamenti e non mi attarderò a sindacarne inutilmente la morte alla luce della sua presenza tanto impastata con la storia contemporanea e dell’ultimo incontro veloce avuto in Campidoglio. Anche se ci siamo visti solo un mese fa, anche se mi appariva forte e sorridente come d’abitudine, anche se era presente come ogni anno alla cerimonia del premio internazionale Albero Andronico, anche se era tornato da poco dall’Afganistan infaticabile come consueto, anche se la sua stretta di mano trasmetteva un calore invariato nel tempo, Pino non c’è più. Partiamo da qui. Cominciamo dalla fine per raccontare chi era, cosa perdiamo, cosa ci lascia e come salutarlo. Che reporter è stato Pino lo sappiamo tutti. Uno di razza, si usa dire, quando per razza si intende un’autenticità, un’integrità che lega indissolubilmente l’uomo alla professione e ne veicola scelte, ne spinge avanti i passi anche quando l’istinto di sopravvivenza vorrebbe frenarli i passi. Pino invece non sapeva cosa significasse risparmiarsi, era sempre in prima linea, sempre armato di telecamera per rispondere col fuoco della conoscenza all’occultazione tanto cara alla logica della distruzione. “Ah Rosa’”, mi disse una volta, ”la guerra comincia da lontano, mica sul campo di battaglia.” e io annuii rispondendo ”comincia dentro lo spirito di quelli che la vogliono, vero?”, e lui concluse, zittendomi, ”no, comincia con il silenzio di quelli che ne accettano le logiche”. Aveva ragione lui. Pino ha sempre combattuto contro il silenzio, contro i segreti dovuti, contro le verità precostituite e infrangibili pagate al prezzo di vite che si sono spente assetate di una giustizia mai saziata. Questa fede nella ricerca delle vere vittime, lo portava sempre tra la gente. Per questo i suoi reportage erano diversi, rivelatori, accecanti in certi casi. Perché Pino aveva il dono di guardare con gli occhi della gente di cui raccontava. Sapeva vedere la realtà nella sua interezza. “La verità non esiste, esistono i fatti.”: è sempre stata questa la sua fede. Così ho cercato di assumerla anche io, partendo dal suo insegnamento. A questa sua fede dobbiamo la conoscenza dei maggiori fatti della nostra contemporaneità. È spinto da questa fede che è stato il primo reporter occidentale ad entrare nella centrale di Chernobyl, dopo il disastro dell’Ucraina Sovietica, a scoprire i resti di Che Guevara in Bolivia, a mostrare le immagini dell’Area 51 nel deserto del Nevada, rimaste segrete fino a quel momento. È stato anche l’ultimo compagno di viaggio di Enzo Baldoni, a cui era legato da fraterna amicizia. Ma c’è un valore aggiunto nel modo in cui Pino svolgeva il suo lavoro di reporter, che ne connota i tratti umani e lo distingue, innalzandolo, come professionista: il valore che ha dato alla memoria.
A lui dobbiamo la rivelazione della sorte degli italiani dell’Armir, l’armata italiana dispersa in quella che oggi è l’Ucraina nei luoghi della disastrosa marcia del Davaj e la ritirata nella valle del Don, nel gelido inverno del 1942. Ottantamila dispersi e ottantamila famiglie aspettano risposta da oltre settantanni sui loro cari e Pino Scaccia nel 1992, dopo il crollo del regime sovietico, ha dato risposta a tremila di quelle famiglie. Sempre lui ha scoperto i cimiteri nascosti, negati da Stalin, e ha partecipato alla riesumazione di alpini italiani, sepolti da cappellani amorosi, con dentro le tasche le lettere scritte e mai arrivate alle famiglie.
Ce lo ha raccontato in un libro “Un inverno mai così freddo come nel 1943” (Edizioni Tralerighe) e ne ha scritto nel suo blog “letteredaldon”: “un ex ufficiale del KGB ci fece entrare nei sotterranei della Lubianka, dove c’erano infiniti segreti su settantenni di bolscevismo. Dentro c’era un archivio poderoso nascosto e negato per cinquant’anni, sulla seconda guerra mondiale. Tre milioni di schede e un settore dedicato all’Armir. Bastava fare un nome e dentro c’era tutto: documenti, cartoline, foto, prigionia, vaglia non spediti, grazie alla maniacale metodicità sovietica.” E ancora, ha raccontato Pino: “Per andare nella valle del Don ci misi due giorni, mangiando solo una fetta di lardo. Avevamo la mappa dei cimiteri, ma la diversa realtà rispetto a mezzo secolo prima, le chiese e le strade costruite sopra ne rendevano difficile la localizzazione. Alla fine li trovavamo. Ed era un pugno nello stomaco. I corpi dei soldati italiani, sepolti appena morti, dopo una battaglia, apparivano integri, con le divise. E dentro le divise le lettere mai spedite a casa, le cinte con incisi gli amori della loro vita. Potete immaginare il turbinio di emozioni quando si consegnavano i reperti, anche i resti, alle famiglie. Un valore umano che superava nettamente quello giornalistico“. Un merito unico quello di Pino, pari alla sua grazia, al suo dono di restituire centralità e valore alla memoria. Questa è un’attitudine inusuale per un reporter, a cui si chiede di stare sempre sul qui e ora, sul pezzo, come si dice in gergo; ed è un’attitudine in sempre più rapida e rovinosa decadenza nel nostro tempo consacrato all’altare dell’effimero, che asserve e svuota di senso e presenze le nostre vite, lasciandoci senza più presenza interna, anche con noi stessi. Pino no, Pino era uno che dava valore alla sua vita e a quella degli altri, e saper ricordare è un modo di onorare l’esistenza. Forse è per questo che Pino ha fatto la differenza, forse è per questo che ha tenuto un blog sulla memoria, forse è per questo che ha passato la sua vita accanto a una sola donna. Ho un’ultima cosa da raccontare su Pino, un episodio terribile che rivela però una tenerezza e la capacità di venerare le antiche memorie, rendendole riferimento eterno: si trovava alle porte di Bagdad, insieme alla sua troupe, quando subì un’imboscata e fu inseguito per oltre 100km mentre gli attentatori continuavano a crivellare di proiettili la jeep che lo trasportava insieme agli altri, poi, nonostante l’autista ferito, riuscirono a scappare. Pino in quel momento, mentre sentiva la morte rincorrerlo a 150 km orari, dai finestrini vedeva guizzare volti e cose care. Ribellandosi al congedo dalla vita ha chiuso gli occhi, si è rivisto bambino sulle ginocchia della nonna. E ha iniziato a pregare non un altare, ma il primo altare: sua nonna. Per tutte queste ragioni Pino non è stato solo un reporter, ma un uomo di razza. Ci lascia in eredità la ricerca più luminosa e difficile, quella della verità, indicando un metodo, che non dovremmo scordare mai: con fare leale, onesto, ma incessante. Come è stato lui: leale, onesto, ma incessante, d’esempio. Grazie Pino.