La trasformazione digitale in atto, incoraggiata dalla crisi pandemica, impatta in modo decisivo sul sistema produttivo e inevitabilmente sul mercato del lavoro. Di contro, quest’ultimo non può dirsi sufficientemente rispondente alle dinamiche imposte dalla digitalizzazione.
Lo scorso ottobre si è tenuto in modalità virtuale l’Internet Governance Forum Italia 2020(IGF), il consueto evento nato con il patrocinio delle Nazioni Unite per favorire il confronto e il dibattitto su tematiche inerenti l’Internet Governance; i dati emersi rivelano che nel nostro Paese sono circa 55 milioni i cittadini attivi su internet, ossia il 92% della popolazione totale, mentre per lavorare nelle imprese italiane sono richieste competenze digitali per7 assunti su 10, pari a 3,2 milioni di lavoratori.
I numeri sull’offerta di lavoro riferiti da Unionecamere indicano che nel 2019, su 4,6 milioni di entrate programmate, le imprese ne hanno destinate 3,2 milioni a professionisti con e-skill elevate e diversificate.
Nello specifico, l’abilità tecnologica di base è stata richiesta a circa 2,8 milioni dei nuovi ingressi in azienda (il 60,4% del totale). La capacità di utilizzare linguaggi o metodi matematici è stata ritenuta necessaria per oltre 2,3 milioni di entrate programmate (il 51,3% del totale).
Più ristretta, per ovvi motivi, la domanda di competenze specifiche per la gestione di soluzioni innovative: robotica, Big Data Analytics e IoT. Sono a ogni modo oltre 1,6 milioni le posizioni lavorative per le quali è indispensabile la capacità di gestire soluzioni di Industria 4.0 (pari al 36,2% di tutte le entrate).
Le capacità di base, è importante sottolinearlo, sono richieste per quasi tutte le professioni: professori, addetti all’immissioni dati, riparatori di apparecchiature informatiche, tecnici web, addetti alla contabilità e tecnici esperti in applicazioni.
La padronanza di linguaggi e metodi matematici e informatici è una skill necessaria per le professioni che provvedono alla gestione e alla progettazione di software e sistemi informatici.
Infine, la capacità di utilizzare tecnologie 4.0 è considerata imprescindibile per le professioni tecniche con un elevato grado di specializzazione: ingegneri, analisti, progettisti e amministratori di sistemi, tecnici programmatori.
L’analisi condotta da Unionecamere, su rilevazioni effettuate mediante il Sistema Informativo Excelsior nel 2019, fotografa una situazione chiara e poco incoraggiante: il 28,9% di queste professionalità, ossia 940 mila posizioni lavorative, sono di difficile reperibilità perché i lavoratori risultano impreparati o è ridotto il numero di candidati. La percentuale raggiunge, poi, il 36,4% se parliamo di competenze 4.0, considerate strategiche per l’ottimizzazione dei processi aziendali.
Queste evenienza si verifica in particolar modo per le PMI, organismi che in realtà rappresentano l’ossatura dell’economia italiana.
Stando al report Employment Outlook 2020 dell’Ocse non è ipotizzabile, neanche in un futuro prossimo, una conversione digitale di tutta l’occupazione. Ad avvalorare questa tesi, l’Osservatorio del Politecnico di Milano il quale stima che, anche in piena pandemia, solo 6 degli 8 milioni di lavoratori italiani hanno potuto beneficiare dello smart working.
È evidente che la digital transfromation incontra dei limiti in alcuni settori produttivi, non si può tuttavia negareche il Covid-19 abbia accelerato il passaggio di molte imprese all’export digitale. Una tendenza già in uso da circa 5 anni; le imprese che ricorrono alla vendita on-line sono aumentate di circa 11 mila unità, e il maggior incremento si evidenzia soprattutto nel Sud Italia.
Questi dati dimostrano come le competenze digitali non sono necessarie solo per le aree tecniche, ma devono figurare nei curricula di ogni comparto aziendale, dall’amministrativo alle risorse umane.
“La digitalizzazione delle imprese oggi può valere da 3 a 7 punti di PIL. – fa notare il presidente di Unioncamere, Carlo Sangalli – Per questo è urgente fare un salto di qualità per superare il gap delle competenze digitali di lavoratori e imprese allineandole alle esigenze del mercato e per colmare i ritardi infrastrutturali accumulati”.
L’arretratezza dell’Italia in campo digitale è legata a una mancanza di un piano strutturale e integrato condiviso da tutti gli attori coinvolti, pubblici e privati.
Un’azione di governo a singhiozzo non raggiunge l’obiettivo. Per accogliere davvero l’innovazione tecnologica bisogna agire mediate interventi strutturali di lungo termine, aumentando, inoltre, gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione; il rapporto Anitec-Assinform dello scorso 14 ottobre mostra che l’Italia destina solo lo 0,15% del PIL in ricerca e innovazione ITC contro lo 0,21% della Ue, il che comporta non solo un rallentamento nella progressione, ma anche una carenza di ricercatori ed esperti del settore.
Il che dimostra, ancora una volta, che innovazione e formazione devono camminare di pari passo.
Dal rapporto 2020 dell’OCSE sull’istruzione emerge che in Italia sceglie un percorso tecnicoil 54% degli studenti di secondaria superiore (media OCSE: 37%) e l’88% degli studenti universitari (media OCSE: 62%), percentuali che poi si scontrano con la carenza di programmi alternanza scuola-lavoro, realizzati con sempre meno fondi e proposte di valore.
Gli ITS – Istituti Tecnici Superiori, ad esempio, costituiscono il percorso terziario non universitario più adatto a rispondere alla domanda delle imprese di competenze tecniche e tecnologiche per promuovere i processi di innovazione.Eppure i numeri ci raccontano che l’Italia, almeno fino al 2017, è fra i Paesi OCSE che investe meno di tutti nell’istruzione: la quota di PIL dedicata al solo livello terziario è lo 0,9%, inferiore all’1,4% nella media OCSE.
Se la crisi economica sta colpendo tutti è anche vero che l’innovazione tecnologica può essere intesa come la cura. Già nel 2016, per far fronte al gap di competenze digitali, l’Ue ha presentato l’iniziativa Digital Skills and Jobs Coalition, e le aziende sono a lavoro per individuare soluzionia supporto della riconversione. Ma per raggiungere davvero dei risultati sono necessarie azioni di concerto tra aziende, istituzioni, scuole e università. Occorre un monitoraggio costante per prevedere quali saranno le professioni maggiormente richieste, così da arricchire e favorire l’offerta formativa.