Confesso che fino a due anni fa non conoscevo la parola “resilienza”. Questa è anche la prima volta in assoluto in cui la scrivo e credo di non averla mai pronunciata.
Anche il significato non mi è del tutto chiaro; nonostante abbia consultato vari dizionari, non riesco a fissarmelo in mente; essa rimane una parola a me completamente estranea.
Neppure riesco ad avere la faccia soddisfatta di chi sempre più spesso la usa nel dibattito televisivo, e non: tentando col riferimento alla “resilienza” di dare una parvenza di intelligenza a ciò che dice, per lo più un nulla col solo fine di far presa sul pubblico.
In questa settimana l’ho sentita (non ricordo da chi, giuro) anche con riferimento alla Costituzione: che andrebbe cambiata, votando favorevolmente al quesito referendario, “per non umiliare la resilienza degli italiani”.
“Resilienza”, cito dal vocabolario Treccani, ha tre significati:
«1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.».
Siamo in presenza di un termine tecnico, proprio della fisica e della merceologia, per estensione prestato al linguaggio tecnico della psicologia. Dirlo, ripeto, è diventato un atteggiamento: ma a me sembra vanesiamente sciocco chi lo pronuncia al di fuori di un convegno di psicologi, specie quando nel farlo ostenta compiacimento.
Legittimo il dubbio che non ne padroneggi pienamente il significato, un po’ come certi personaggi politici, che la non politica di questi tempi ci ha regalato, i quali, quando non sanno che rispondere, citano il “recovery fund”, pronunciandolo in maniera sbagliata e facendo dubitare che sappiano in cosa consiste.
Resilienza, insomma, è un termine di moda. Nulla di più.
Neppure lontanamente paragonabile con “resistenza”, che, se scritto con la erre maiuscola diviene un monumento culturale e sociale, la storia della nostra Repubblica.
Il «resistere, resistere, resistere» pronunciato dal Procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002, per quanto non si potesse essere d’accordo con lui (non lo ero) e si potesse dubitare (lo dubitavo) della legittimità di una contrapposizione dichiarata tra potere legislativo e potere giudiziario, ha suscitato comunque rispetto. Se avesse detto «resiliere, resiliere, resiliere», non ne ho la controprova, ma sono sicuro che avrebbe provocato una sonora eduardiana pernacchia.
La nostra costituzione repubblicana è, insieme, un miracolo ed un monumento giuridico. Un miracolo, perché uomini di differentissime ideologie, accomunati dalla Resistenza, hanno caparbiamente e con intelligenza cercato di esprimere principi che unificassero le diversità e favorissero la convivenza sociale, la parità di diritti e opportunità dei cittadini, la salute e la ricerca del benessere, un equilibrio tra i diversi poteri dello Stato.
Un monumento giuridico perché i politici di allora hanno lasciato il giusto spazio ai giuristi: che hanno scritto norme chiare, comprensibili, brevi. E, soprattutto, hanno creato, con appena 138 articoli, un sistema costituzionale armonico, senza contraddizioni.
Non sono armoniche e sono piene di contraddizioni le riforme costituzionali proposte.
Addirittura neppure può dirsi riforma quella oggi proposta, e che mi auguro venga sonoramente bocciata dalla maggioranza del popolo italiano: non una riforma costituzionale, ma un taglio di numeri senza mutare nulla altro; una sorta di punizione grillina, fine a sé stessa (e quasi irrilevante) unico residuo di quello che fu un movimento anti casta e che oggi è potere puro, anche se inconsapevole. Con la sciagurata complicità ufficiale (ma con importanti dissensi, come d’uso) del partito della sinistra: che, per potere, ha detto sì, dopo aver votato quattro volte no, contro quella riforma.
Un potere che sarà costretto, dalla resistenza dell’elettorato, ad una psicologica resilienza.