Una delle poche certezze consegnateci dalla attuale crisi sanitario-economica è che un evento di tale portata rappresenterà un acceleratore senza precedenti dei nodi politici strutturali irrisolti negli ultimi decenni. Non da ultimo quello del rapporto tra Stato e Chiesa. Il braccio di ferro, infatti, tra Palazzo Chigi e la Cei sulla reiterata limitazione della libertà di culto – ma con conseguenze più profonde anche per la stessa libertà religiosa – durante il periodo di confinamento ha posto nuovamente in primo piano una serie di questioni, che affondano le loro radici sin dalla metà degli anni ’90, vale a dire sotto la Presidenza della Conferenza Episcopale di Ruini e nella fase conclusiva di quella che è più comunemente conosciuta come “prima Repubblica”.
Sfogliando l’opera Cristiani d’Italia, si può trovare una prima definizione del termine «ruinismo» – neologismo coniato dal giornalismo con una mal celata venatura polemica e critica – con cui si indica «l’impronta di mons. Camillo Ruini nella conduzione della Conferenza episcopale italiana dal 1991 al 2007». Per restituire il senso complessivo di una stagione politica così complessa come quella post-1989, sarebbe sempre opportuno riflettere sul significato della fine della Democrazia Cristiana, ovvero non soltanto la conclusione dell’unità politica dei cattolici, ma soprattutto la fine di una gestione mediata delle relazioni tra autorità italiane, Santa Sede e Cei. Senza più un punto di riferimento come la DC, la Santa Sede – terminata la Guerra Fredda e sempre meno ancorata al proprio “giardino segreto” – delegò al Presidente della Cei Ruini il difficile compito di creare i presupposti per una entente cordiale nelle relazioni fra il nuovo sistema politico italiano e il mondo cattolico. L’opera di Ruini è stata, infatti, una grande stagione di supplenza politica, come fu del resto l’operato di un suo grande punto riferimento politico e culturale: Alcide De Gasperi.
Molto spesso la gestione “ruiniana” è stata tacciata da commentatori ed osservatori come mera e semplice politica del “do ut des” ( silenzi e consenso in cambio di una legislazione “accomodante” per la Cei) con gli esecutivi soprattutto di centro destra della “seconda Repubblica”. Secondo questa interpretazione, la strategia politica della Cei sarebbe esclusivamente da sintetizzare come un arroccamento per la tutela dei valori non negoziabili. Una prassi di governo che ebbe il proprio apice con il fallimento del raggiungimento del quorum nel referendum abrogativo del 2004 sulla legge 40 (procreazione medicalmente assistita). Ruini – consapevole che quella battaglia referendaria avrebbe avuto conseguenze importanti nei decenni successivi – sposò la via dell’astensionismo, riportando, così, al centro della scena la Cei nel dibattito pubblico italiano. Ma proprio quel successo momentaneo rappresentò paradossalmente un punto di svolta negativo nella vita dei cattolici all’interno del mondo politico e civile italiano.
Uscito, infatti, di scena Ruini nel 2007, si è assistito ad un processo di scollamento tra il “ paese legale” (identificabile con i vertici delle autorità ecclesiastiche) e il “paese reale” ( associazionismo cattolico, universo diocesano e gli stessi fedeli). La criticità di questa situazione è esplosa con la crisi sanitaria e con le successive restrizioni alla libertà di culto per il popolo cattolico in Italia. Una parte di esso ha sposato in pieno la linea inizialmente più rigida dell’esecutivo sulle riaperture delle celebrazioni religiose, mentre un’altra parte ha lamentato l’immobilismo delle istituzioni ecclesiastiche. La Cei ha portato avanti questa seconda linea, nel corso delle interlocuzioni avute con il governo alla fine di aprile, rivendicando la centralità e la responsabilità della propria azione pastorale nei confronti del popolo dei fedeli dopo quasi tre mesi di assenza di celebrazioni religiose a porte aperte.
La chiave di volta, tuttavia, dell’intera faccenda non è neanche più la libertà di culto, ma la stessa libertà religiosa: ovvero il diritto esistenziale di ogni singolo credente di porsi dinanzi alla propria coscienza consapevole del proprio ruolo e della propria vocazione all’interno del quadro storico in cui egli è calato. Se non si comprende questo la presenza dei cattolici è destinata a rimanere un elemento di testimonianza – nella migliore delle ipotesi – oppure unicamente strumentale ad operazioni elettorali di dubbio valore e di scarsa consistenza. L’impegno dei cattolici nella tanto auspicata ricostruzione post-pandemia conoscerà la propria legittimazione solo se saprà farsi interprete delle esigenze concrete e reali di un’intera comunità nazionale (politica demografica e politica industriale per dirne solo alcune) abbandonando battaglie di retroguardia ormai anacronistiche – non tanto sui principi ma sulle modalità di discussione – perché non accompagnate da una proposta integrale di rinnovamento culturale e politico capace di guardare al medio-lungo periodo.