Scrivo da quell’autentico paradiso terrestre che è Tropea nei giorni del solstizio d’estate.
Non solo un posto incantevole ma anche un posto sicuro, dove non c’è stato nessun contagiato da Covid-19.
Subito dopo, però, guardandomi attorno, un’immediata tristezza: la metà dei negozi e dei ristoranti e dei bar chiusi; molti B&B sprangati; i villaggi turistici e gli hotel in trepida e coraggiosa attesa dei turisti che (ne sono certo) verranno.
Imprenditori, gente che non si è affidata al “posto sicuro”, l’aspirazione e la raccomandazione di generazioni di genitori da nord a sud, ma che ha saputo creare ed alimentare un’industria turistica, con la consapevolezza che per mantenerla ed accrescerla devono migliorare continuamente: devono, perciò, coltivare un merito collettivo che renda sempre più appetibile la loro offerta, perché la bellezza del posto è la base, ma da sola non serve a niente.
Il così evidente predominio della classe imprenditoriale e la conseguente evidente crisi mi hanno portato dal mare di Tropea alla lugubre liturgia degli “stati generali” che la pantomima della classe politica che ci comanda ma non ci governa, ha ritenuto di celebrare nell’inaccessibile Casino del Bel Respiro o dell’Algardi (dal nome dell’architetto bolognese che lo realizzò nel XVII secolo), sito nella parte non aperta al pubblico di Villa Pamphilj.
Liturgia non costituzionale, conseguentemente non istituzionale, celebrata – è ovvio – a porte chiuse, in barba alle dirette streaming di bersaniana memoria; e nella quale, per paradosso, gli interventi più significativi sono forse avvenuti con collegamenti da remoto.
Pantomima in cui si è celebrata forse l’autentica battaglia nazionale di oggi: quella tra chi trae sostentamento dal “posto sicuro” (sembra circa il 40% della popolazione) e chi dipende dal lavoro autonomo (il 60% pare, secondo le mie non verificate stime).
I primi, dipendenti pubblici in testa, non hanno perso un centesimo nell’emergenza epidemiale e, ancora oggi, il 70% di loro lavora in streaming: con gli uffici pubblici chiusi ed inaccessibili ai cittadini. Con le quasi eroiche eccezioni di alcuni settori, quello sanitario in testa.
I secondi hanno subito tutti i contraccolpi del forzato lockdown e proprio negli stati generali di Villa Pamphilj hanno urlato il loro malcontento.
Lo ha fatto il Presidente di Confindustria, lo hanno fatto la rappresentante degli albergatori e quelli delle professioni.
È certo che, ad un mese dalla fine della quarantena imposta a tutti, le imprese che hanno avuto la capacità economica di farlo hanno ripreso l’attività sostenendo il costo anche dei cervellotici adeguamenti imposti dai burocrati; quelle che non hanno ripreso è perché o non c’è l’hanno fatta o non hanno avuto i sostegni necessari.
Gli incontri tra imprenditori o professionisti – che non sono mai cessati – sono ripresi alacremente e si svolgono in tutta Italia tra gente che ha bisogno di guardarsi negli occhi e, alla fine, stringersi la mano (magari subito dopo lavarsela: ma è il simbolo del gesto che viene affermato).
Negli uffici pubblici siamo ancora lontani dalla ripresa e lo smart working certo non risponde alle esigenze avvertite da chi di quegli uffici necessita. È il “posto sicuro” che tanto tranquillizza chi ce l’ha, ma tanto (si legga il Prof. Sabino Cassese sul Corriere di ieri) determina, col completo scollegamento dal “merito”, lo sfascio generale e l’eccessiva burocratizzazione “difensiva” del funzionario e “oppressiva” dell’utente. E, ha ragione un mio follower di twitter, non bisogna guardare solo alla dirigenza, ma anche più in basso nella gerarchia, a migliaia di LSU, presi a caso senza concorso, poi assunti per legge e per sindacato, anche se privi dei requisiti minimi.
C’è un’Italia che non si è mai fermata: ed a questa va tutta la nostra gratitudine, economia primaria e servizi essenziali.
Poi c’è un’Italia che è stata fermata: alcuni con tutte le garanzie del “posto sicuro”, non se ne sono accorti e non hanno nessuna intenzione di correre rischi; altri perdendo tutto e confidando solo sulle proprie capacità e pronti a rischiare non solo economicamente: e non per egoismo o avidità, ma perché la loro attività fa la nostra economia.
Se questo contrasto, così platealmente emerso, porterà ad una maggiore motivazione di chi collocato nel “posto sicuro” non ha altra ambizione che di evitare fastidi, magari sapendo di avere qualche certezza in meno, si sarà fatto un grande passo in avanti: un cambio di mentalità che non potrà che fare bene alla nostra Amministrazione e al nostro Paese. E che, accrescendo competenze e disponibilità del pubblico dipendente, potrebbe perfino cambiare il rapporto tra Stato e cittadini.