Un nuovo studio condotto da tre ricercatori tedeschi e pubblicato su Frontiers in Epidemiology ha sollevato interrogativi sull’affidabilità dei test PCR utilizzati in Germania durante la pandemia di COVID-19. Secondo l’analisi, solo circa un test positivo su sette avrebbe corrisposto a una reale infezione da coronavirus in grado di generare una risposta anticorpale. In altre parole, l’86% dei risultati positivi potrebbe aver rappresentato falsi positivi o rilevazioni di frammenti virali non associati a malattia. I ricercatori Michael Günther, Robert Rockenfeller e Harald Walach hanno utilizzato modelli matematici per confrontare i dati dei test PCR con quelli degli esami del sangue sugli anticorpi IgG, raccolti da laboratori che hanno gestito circa il 90% dei test nel Paese tra il 2020 e il 2023. I risultati hanno mostrato una significativa discrepanza: mentre la PCR rileva porzioni di materiale genetico virale, solo una minoranza dei positivi ha sviluppato una risposta immunitaria completa. Lo studio ha inoltre evidenziato che già a fine 2020 circa un quarto della popolazione tedesca aveva contratto spontaneamente l’infezione, e che entro la fine del 2021 la percentuale era salita al 92%, indicando un’immunità quasi universale. Secondo gli autori, l’uso massiccio dei test PCR ha portato a una “sovrastima” dei casi, influenzando politiche sanitarie e restrizioni che hanno avuto conseguenze sociali ed economiche rilevanti. Critici delle strategie ufficiali hanno sottolineato come la dipendenza dai test PCR abbia contribuito a decisioni discutibili, ricordando episodi passati in cui l’uso improprio della PCR portò a misure sproporzionate. Gli autori precisano che la tecnologia PCR non è “imperfetta” in sé, ma che il suo impiego come strumento di massa per monitorare la pandemia non ha fornito un quadro realistico delle infezioni. “Un risultato positivo non equivale necessariamente a una malattia”, hanno ribadito.



