L’apparato legislativo e amministrativo dello Stato è riuscito a trasformare l’epidemia da coronavirus in una questione burocratica, più che medica.
La realtà sanitaria, superato il momento della crisi, ha ceduto il posto a cervellotiche norme burocratiche, solo apparentemente finalizzate alla salute pubblica.
In realtà volute per ricordare a tutti – una volta che ci hanno detto che possiamo tornare ad uscire da casa non perché il Presidente Conte benevolmente ce lo consente, ma perché è uno dei nostri diritti costituzionali – la nostra sottomissione di sudditi.
Sennonché le norme cervellotiche e meramente burocratiche imposte alla Nazione risultano impossibili da essere osservate per lo Stato stesso.
Con la fondamentale differenza che l’imprenditore privato, che deve cercare di guadagnarsi la vita, ha la sola alternativa di aprire comunque, trovando soldi per sanificare e comprare plexiglas, sperando (è una lotteria!) che nessuno dei millanta precetti succedutisi gli sia sfuggito, nella consapevolezza di dovere sottostare alle vessazioni del primo soggetto che si ritenga dotato di un potere pubblico che voglia fare un controllo; o che consideri una famiglia di sei persone che pretenda di stare insieme come un “assembramento” (definizione da polizia di Stato totalitario, assolutamente discrezionale: nella Unione Sovietica l’incontro di due liberali sarebbe stata repressa; durante il fascismo due comunisti che parlavano avrebbero costituito un’adunata sediziosa).
Lo Stato, all’incontrario, trova proprio nella impossibilità – nella sua stessa assoluta incapacità ed impotenza, azzarderei – di attuare le sue stesse regole una comoda e facile giustificazione per non erogare un servizio, anche essenziale.
Il caso per me più eclatante, certamente anche per il lavoro che svolgo, e quello della giustizia. Una incapacità organizzativa che non è solo di questi tempi di coronavirus, ma che è endemica: credo che siano centinaia nella mia vita professionale i provvedimenti con i quali veniva disposto il rinvio, spesso di uno, ma anche di due anni, di una udienza per “eccessivo carico del ruolo”. Ciò che significa che chi doveva organizzare quell’ufficio non ho avuto la capacità di farlo. E poiché, anche in un caso come quello descritto, il problema è sempre di uno scarico di responsabilità, ecco pronta la giustificazione che devia ad altri la causa: carenza di organico, ruoli non coperti, obbligo di recupero di ferie arretrate, etc. La realtà è sempre una: lo Stato, quando dovrebbe essere imprenditore di se stesso, incapace di farlo, fugge dalle sue responsabilità e non eroga il servizio pubblico (ciò che sarebbe reato anche per un minuscolo concessionario).
I vari decreti legge dei mesi di marzo ed aprile 2020 hanno determinato una sospensione dei termini legali fino al giorno 11 maggio. Sarebbe stato lecito attendersi dopo quel giorno una ripresa della giustizia: tutto, invece è fermo. Non si parla di riaprire i Tribunali che, sostanzialmente, dal momento dell’emergenza, svolgono non la loro funzione più nobile di amministrare con imparzialità la giustizia, ma soltanto quella inquisitoria.
Attività anch’essa essenziale, ma certamente appartenente ad una categoria di magistrati che sarebbe opportuno costituissero una magistratura autonoma e con carriere separate.
Inquisizione che non troverà, però, per il fermo dei “giudicanti” uno sbocco in un processo per stabilire la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato o anche del semplice indagato (la differenza tra i due termini sfugge ai più).
Un quadro perfetto di incapacità nel quale si inserisce, come se ne fosse il logico corollario, la barbara legge sulla prescrizione.
Quadro che non cambia con riguardo al processo civile.
Anche qui rinvii “d’ufficio” fino a due anni delle udienze di aprile e maggio e nessuna prospettiva di ripresa prima di settembre-ottobre.
A monte degli otto chilogrammi di provvedimenti dei soli uffici giurisdizionali della capitale c’è una circolare del Ministro Guardasigilli diretta al Presidente della Corte di Cassazione ed a tutti i Presidenti delle Corti d’Appello dove si “raccomandava” di prorogare “almeno” fino al 30 giugno le regole dell’emergenza, non potendosi garantire la funzionalità degli uffici.
Certo la consegna delle toghe da parte degli avvocati penalisti di Roma è un gesto forte.
Ma vi assicuro che ci vuole ancora più forza a continuare in una professione, sempre di più vessata, avvilita da un atteggiamento arrogante, dove la certezza del diritto ha lasciato il posto alla antigiuridica richiesta della certezza della pena.
Ma la quarantena – che nel caso della Giustizia si è già prolungata in una “novantena” – prima o poi finirà: e troverà pronti tantissimi Avvocati con la “A” maiuscola a difesa dei Diritti dei cittadini: anche contro leggi che tali Diritti pretendano di limitare o di abolire.