La 29ª edizione del Budapest Pride, svoltasi il 28 giugno, ha visto sfilare oltre 30.000 persone nel cuore della capitale ungherese, tra bandiere arcobaleno, slogan per l’uguaglianza e una forte presenza di attivisti internazionali. Ma a far discutere non è stata solo la marcia, bensì la mancata adesione degli Stati Uniti a una dichiarazione congiunta firmata da 37 ambasciate straniere a sostegno della comunità LGBTQIA+ ungherese. Il documento, diffuso alla vigilia dell’evento, condanna le politiche discriminatorie del governo di Viktor Orbán, che negli ultimi anni ha approvato leggi contro la “promozione dell’omosessualità” e vietato i Pride in nome della “protezione dei minori”. Tra i firmatari figurano Germania, Francia, Canada, Paesi Bassi e Giappone. Ma Washington ha scelto di non sottoscrivere il testo, senza fornire spiegazioni ufficiali. La decisione ha sorpreso molti osservatori, dato che proprio gli Stati Uniti avevano promosso simili iniziative in passato. “Il loro silenzio pesa, soprattutto in un momento in cui la comunità LGBTQIA+ ungherese è sotto attacco”, ha dichiarato Mate Hegedus, portavoce del Pride. Il sindaco di Budapest, Gergely Karácsony, ha sfidato il divieto imposto dal governo, riconoscendo la marcia come evento municipale per aggirare le restrizioni. “Difendere i diritti civili è un dovere delle istituzioni locali quando lo Stato abdica”, ha affermato. L’ONU e il Parlamento Europeo hanno espresso preoccupazione per la deriva autoritaria del governo ungherese, mentre in tutta Europa si sono moltiplicate le manifestazioni di solidarietà. Intanto, la comunità LGBTQIA+ locale continua a resistere, tra intimidazioni, censure e un clima politico sempre più ostile.