Siamo chiusi in casa. Ancora per poco, ci rassicurano. Poi verrà il momento della fase due, che stiamo aspettando come una mano a sciogliere il laccio che sentiamo stringere intorno al collo. Manca l’aria, a tutti: manca l’aria ai malati dentro ai caschi della respirazione assistita, manca l’aria ai familiari stretti dall’angoscia di una forzata distanza, manca l’aria ai medici quasi stritolati dentro dispositivi di protezione, manca l’aria dietro la porta necessariamente chiusa della propria casa, infine manca l’aria sotto la mascherina quando si esce per esigenze primarie.
Lo spazio fisico di ognuno di noi si è ampliato, eppure nella nostra gola sembra mancare l’aria. Il distanziamento sociale è percepito come un giogo quasi dittatoriale. Le nostre braccia rivendicano il diritto d’abbraccio, le nostre gambe rivendicano il diritto di spostamento, il nostro cervello conta le azioni negate, i danni economici, gli esiti negativi dello stress sulla salute. Le nostre riunioni virtuali ed informali, attraverso i vari strumenti di comunicazione sociali, addirittura per mezzo delle quattro parole che ci scambiamo dai balconi, sono all’insegna del “dobbiamo”, della “mancanza”, della “guerra al nemico invisibile”. Il covid19 ha messo d’accordo tutti. E lo ha fatto attraverso privazioni che partono dal nostro corpo. Questo momento di estrema difficoltà, di ridiscussione di certezze e diritti acquisiti, ha rinvigorito e rivelato il significato della comunione e della solidarietà.
Attardandoci nella riflessione, chiudendo gli occhi e provando ad ascoltare la nostra anima però, percepiamo un piccolo movimento interno che ci richiama ad insoddisfazioni e privazioni più antiche, antecedenti il covi19, e di cui il virus, pur consci delle drammatiche conseguenze che porta con sé, funziona da detonatore. Platone sosteneva che “non si può cercare di curare il corpo senza cercare di curare l’anima”.
La civiltà culla della scienza medica considerava primaria, in termini di salute, la presa in carico non soltanto della malattia fisica, ma anche dello stato spirituale di un paziente.
Sono diversi anni che, vivendo in corsia con i malati, osservo e ascolto le anime farsi largo, richiedere spazio e tempo, tra tubi, farmaci, protocolli e diagnosi. Chi sta male ha e riscopre il bisogno d’ascolto, il valore del tempo, la speranza di realizzare quel sogno accantonato dietro il quotidiano. La malattia è un setaccio senza eguali di ciò che non ha valore e di ciò che invece resta in piedi nella nostra vita. Cos’è il refuso? Cosa resta di importante quando tutto crolla?
Ogni malato è sempre di fronte a queste grandi domande, perché è la vita stessa che le pone. Ho visto persone lottare e vincere e ho visto persone morire di malattie terribili, dolorose, che fanno spegnere poco a poco e che quanto il covid, limitano individualmente libertà, possibilità e desideri. Eppure, e nel dire questo non faccio un’asserzione che discute il lavoro incredibile di medici e anche di tutte le strutture di supporto che esistono circa le specifiche malattie, nessuna patologia è mai salita all’attenzione in maniera primaria e con diffusione globalmente condivisa come il covid19. Oggi siamo tutti uniti, come non è riuscito a fare nessuna forma di cancro, nessuna morte cardiaca improvvisa, nessuna malattia pediatrica che aggredisce e ruba bambini. Non siamo mai stati tutti insieme contro malattie altrettanto letali e che rappresentano ancora oggi il più alto tasso di mortalità esistente.
Nel ribadire la preziosa unicità e l’inestimabile valore di ogni singola esistenza, mi domando e vi domando: perché?
Provo a fornire le mie ipotesi e considerazioni che le persone conosciute in ospedale mi hanno indotto ad assumere. E qui entra in gioco il rapporto che abbiamo con la nostra anima, un’anima che la società dei miti di massa da cui siamo stati allattati ha relegato al silenzio ogni volta che provava a chiedere di fermarsi per ascoltarla. Il resto lo fa la paura e l’esigenza, umana e anzi sana, di fuggire dal dolore. E un bambino che muore per ascoltarlo bisogna fermarsi dai propri impegni e se non è il nostro, e non siamo, in maniera indicibilmente crudele, costretti dalla sorte, è una creatura che non vogliamo vedere, perché il terrore ci sopraffarebbe. Azzardo queste considerazioni mentre ripenso a un bambino in particolare, di cui non faccio il nome per rispetto della sua famiglia, che non c’è più, perché non abbiamo ancora una cura che ti impedisce di morire a otto anni, e non di covid. Quello che evinco dalla nostra situazione attuale è che gli esseri umani, ed io per prima, arrivano alla comprensione sempre in maniera esperienziale o per minaccia imminente e diretta. Questo significa che siamo di fronte ad una presa di coscienza necessaria: la nostra anima è malata e non pesa sulla bilancia meno del nostro corpo, anzi ne determina il destino.
Il covid19 è un acceleratore di coscienza del preesistente. Si è a rischio di aumento di femminicidi per la contenzione, perché le unioni che non avevano ragione di essere erano già in piedi e la società non è in grado di aiutare come occorrerebbe; si è a rischio suicidio per isolamento perché tutti il più grande estraneo lo abbiamo dentro il nostro cuore e alcune cose che potremmo trovare, costretti a sentire le nostre voci interne senza poter evadere, ci terrorizza. Abbiamo vissuto troppo a lungo sulla soglia della vita, disabituati ad una implicazione totale e profonda, evadendo in maniera artificiale, e qui l’elenco da fare sarebbe lungo, quando la realtà quotidiana si faceva dura e faticosa e abbiamo usato il nostro quotidiano come ancora e appiglio, quando l’evasione virtuale si confermava non bastante. In definitiva, infatti, nessun mezzo virtuale di quelli che abbiamo a disposizione sembra luccicare più come in passato e sembra risolvere la nostra mancanza d’aria, il nostro senso di costrizione. Ma la verità è che il dialogo con noi stessi e con gli altri era insufficiente già da prima.
Allora, la speranza e il senso di questo momento è che possiamo iniziare a curare la nostra anima quanto il nostro corpo, perché solo così andrà davvero tutto bene. Diversamente, quando questa pandemia finirà, perché finirà, torneremo alla nostra condizione precedente, in cui non è vero, Signori, che andava tutto bene. Jung sosteneva che se ognuno curasse la propria interiorità e la relazione amorevole con se stesso riuscirebbe a stabilire relazioni d’amore con gli altri. Si tratta di rinunciare ai rapporti di forza e scommettere sul difficile e faticoso rapporto di ascolto, arduo quanto la scoperta del vaccino anti covid, ma che determina le nostre sorti e le problematiche che abbiamo e che sono fonte di arricchimento per la società del consumo. Se accettiamo la sfida di un punto di vista nuovo, allora, sì, impareremo a nutrire la cooperazione e la solidarietà di un respiro più ampio, di uno sguardo che raggiunga tutte le malattie fisiche e psicologiche dell’umano. Allora sì, andrà tutto bene.