Stefano Manera ha risposto alla chiamata dello stato ai “nostri medici” per combattere il coronavirus. Quando gli domando cosa lo ha spinto a partire da Milano per recarsi a Bergamo, nel cuore dell’epicentro pandemico, mi risponde che gli è venuto naturale, senza troppe riflessioni e valutazioni. Gli è stato semplice come respirare mettere i suoi strumenti umani e professionali al servizio di quei pazienti che si moltiplicavano alla stessa velocità con cui scende la saturazione di chi a respirare non ci riesce più.
Ma questa non è la vera risposta. Stefano Manera è partito da Milano, ha chiuso il suo studio, ha salutato i suoi due bambini, preparandoli ad una lunga assenza dal papà, ha caricato in macchina la valigia con il camice e la targhetta che indica la professione, ha imboccato l’autostrada per Bergamo. Queste azioni le ha mosse una natura profonda, radicata, impastata con la sua storia e la sua pelle: Stefano è un medico.
E quando sei un medico non puoi restare indifferente ad un grido. Non c’entra l’eroismo, c’entra la natura profonda della medicina. E la medicina nasce dal bisogno di un essere umano di portare soccorso ad un altro essere umano. Stefano è un rianimatore con 16 anni di esperienza di sala operatoria alle spalle, 11 di emergenze in 118, osteopata, conosce la vita e conosce la morte, lotta strenuamente per la prima, darebbe il suo respiro, se potesse, al suo paziente che annaspa affamato d’aria, ma ha rispetto della seconda e crede che dare dignità e calore a chi muore sia l’estrema forma di cura, quando nulla più è possibile allo sforzo medico e alla scienza. Una volta arrivato a Bergamo ha allestito e aperto dal nulla, con un collega, una rianimazione covid19 con 15 posti letto che assorbe ogni sua energia, ogni momento, ogni pensiero. Molti dei nostri guariti e dei nostri morti sono passati su quei letti, sotto i suoi occhi, tra le sue dita.
Stefano, che cosa significa curare in questo momento?
Per me curare in questo momento vuol dire fare i conti con una situazione straordinaria, con la necessità di contenere un contagio senza precedenti, significa correre contro il tempo, attuare misure di protezione personali che rendono più faticoso il lavoro, significa soprattutto essere l’unico contatto umano con un malato che è doppiamente fragile, perché ferito da un virus aggressivo e semi-sconosciuto e perché solo e isolato. Questo aspetto è a mio avviso il più tragico, spegnersi senza nessuno che ti tiene la mano. Tutti noi medici stiamo profondendo ogni risorsa, facendo tutti gli sforzi possibili per condurre i nostri pazienti alla guarigione, per restituirli alla loro vita, alle loro famiglie. Se il mio scopo principale è la guarigione del malato, un altro grande capitolo della mia vita è stato l’impegno per l’aspetto bioetico, il rispetto della volontà individuale del paziente, il saper accompagnare nel momento della morte, curando e restituendo dignità, presenza e ascolto.
Dottore, che situazione ha trovato a Bergamo?
La criticità della situazione, come sappiamo, è data dal numero dei pazienti e dall’alta specializzazione professionale e strumentale richiesta. Ma quello che ho visto arrivando è stato un impegno straordinario, una condotta eroica, ho visto davvero abnegazione, da parte di tutti. All’ospedale Papa Giovanni XIII sono stati creati dal nulla oltre 100 posti di terapia intensiva covid19. Vedere la sofferenza, il terrore dei pazienti, loro sono i miei eroi, toccare realmente quella battaglia che queste persone combattono contro il virus, mi porta a considerare la domanda “ma il paziente è morto per covid o con covid?” come intollerabile. Non cambia nulla, apparteniamo ad una medicina, spinta fino all’accanimento terapeutico in passato, e ad un sistema etico e sociale, basato sulla difesa del più debole, che deve continuare con coerenza a curare con tutto lo sforzo possibile ogni ammalato; per me e i miei colleghi ogni paziente è unico e irrinunciabile.
Cosa pensa sia necessario osservare di questa emergenza?
Questa realtà ci sta mettendo di fronte a dei nodi incredibili: la morte in solitudine, la nostra fragilità, la nostra relazione con la natura. Siamo degli esseri fragili, quando tutto va bene, tendiamo a sentirci onnipotenti, ma basta un virus che tutto il nostro sistema viene messo a tappeto, crolla la nostra socializzazione, la nostra economia. Abbiamo creato un mondo dominato da rapporti di forza e sfruttamento della natura. La polemica sull’esigenza della corsetta, ad esempio, altro non è che un riflesso di un egoismo che è altrettanto pandemico: non esiste più l’attenzione all’altro, né la concezione del riflesso globale delle nostre azioni sul prossimo. È un virus che ci sta costringendo a riflettere e modificare la rotta sociale intrapresa.
Dottore, cosa non dimenticherà mai di questo momento?
Difficile pensare ad un solo aspetto. Tutti ci troviamo in una sorta di realtà aumentata dove tutto è amplificato. Non dimenticherò mai la sofferenza e ogni sguardo di chi purtroppo non ce l’ha fatta, ma non dimenticherò mai ogni sorriso di chi è guarito, ogni stretta di mano di gratitudine. Non dimenticherò mai l’alleanza nuova e la fatica fino allo spasimo di tutti i colleghi. Stiamo davvero lottando tutti come fratelli per i fratelli.
Dottore, ci sta dicendo che vede nascere anche della bellezza da questa emergenza?
Ce ne sono molti, ma non mi fraintenda, nessuno avrebbe mai voluto vivere e vedere quello che sto vedendo. La spesa umana è inaccettabile e ogni vita ha un valore inestimabile. Purtroppo le tragedie ci pongono davanti alla nostra umanità, a ciò che dobbiamo correggere. Ed è proprio la riscoperta dell’umanità che sto vedendo fiorire in questo momento. La riscoperta dei veri bisogni umani, di guardarsi, di abbracciarsi, la riscoperta del tempo e della sua lentezza, di poter stare chiusi e raccolti e conoscersi, perché noi non ci conosciamo più. Sto osservando una solidarietà e una compassione nuova tra persone. Prego che questa amara lezione ci porti ad acquisire nuova consapevolezza, a superare la logica dello sfruttamento, e ci insegni a relazionarci tutti con rispetto e amore.