“In Italia circa 5.200 donne ogni anno ricevono diagnosi di tumore all’ovaio, ma il numero che preoccupa maggiormente è quello relativo alla mortalità, con oltre 3.000 decessi nell’arco dei 12 mesi e una sopravvivenza netta dopo 5 anni del 43%. Questo vuol dire che meno della metà delle donne a cui viene fatta una diagnosi di tumore all’ovaio dopo 5 anni è ancora in vita”. Questi sono gli ultimi dati forniti dall’associazione italiana registri tumori ‘AIRTUM’, illustrati da Roberto Tozzi, professore di ginecologia e ostetricia dell’Università di Padova e direttore della clinica ginecologica e ostetrica dell’azienda ospedaliera Università di Padova, con un incarico precedente per 12 anni a Oxford, intervistato da Marco Klinger per Medicina Top, format tv dell’agenzia di stampa Italpress.
Tumore dell’ovaio, un ‘silent killer’
Il cancro dell’endometrio è il tumore più comune dell’apparato riproduttivo femminile, con un’incidenza in Europa di uno-due donne su cento nel corso della vita. In seconda e terza posizione troviamo un altro tumore uterino, quello della cervice e quindi il tumore dell’ovaio. “Il tumore dell’ovaio viene definito un ‘silent killer’, è un termine cruento ma meritato, perché è un tipo di patologia che dà sintomi in fase clinica” ha esordito il professor Tozzi, spiegando che tale patologia “ha una fase pre-clinica in cui i medici non trovano sintomi, la paziente raramente viene con un sintomo preciso, sono molto comuni a tante altre patologie, è raro immaginarli come sintomi di un tumore dell’ovaio. E quando anche sono presenti, purtroppo sono la spia di un tumore già diffuso. La prevenzione è scarsa e i sintomi sono aspecifici, fino a qualche anno fa la prognosi era davvero misera, adesso ci sono alcuni miglioramenti, ma ancora oggi rimane un tumore terribile”.
Le pazienti a rischio
La prevenzione parte necessariamente dalla conoscenza. “Negli anni ’90 sono stati identificati due geni, in associazione al tumore del seno. Sono associati all’8% del tumore del seno, ma hanno un legame più stretto con il tumore dell’ovaio, circa il 20% dei tumori dell’ovaio sono associati alla mutazione di quei geni”, ha affermato Roberto Tozzi. “Il nostro organismo, quando questi geni sono mutati, non riesce a riparare ai danni e c’è un rischio enorme di sviluppare il tumore dell’ovaio. Sono a rischio quei pazienti – ha sottolineato il professore – che hanno in famiglia un parente di primo grado con il tumore della mammella o dell’ovaio, c’è un rischio 30-50 volte più alto se c’è questa mutazione. Queste donne devono avere consapevolezza che può essere fatto un test genetico che ci consente di identificare preventivamente il rischio ancor prima del tumore. I test un tempo erano molto lunghi, oggi il tutto è molto velocizzato, si ha il risultato in poche settimane”.
Necessario il test per anticipare il problema
“Il grado di comprensione delle pazienti è aumentato in modo esponenziale, c’è anche un percorso diverso di approccio – ha aggiunto l’esperto. “La mutazione dei geni è vissuta in modo più sereno perché ci sono possibilità di mitigare gli effetti collaterali. Bisogna fare il test, non è una sentenza di morte ma un fattore di rischio, in modo tale da anticipare il problema. Nelle forme più chiare di rischio si può fare prevenzione con i farmaci o la chirurgia profilattica”. Al riguardo, il professor Tozzi ha parlato della chirurgia. “Il tumore dell’ovaio è uno dei pochi in cui la chirurgia ha un ruolo prominente, consente addirittura in alcuni casi di risparmiare la chemioterapia, può essere già risolutiva. Dall’addome superiore al fegato, dalla milza al pancreas, le pazienti hanno un intervento chirurgico fatto con grande attenzione agli effetti collaterali e che dà risultati incoraggianti”, ha confermato Tozzi. Per ciò che riguarda la sanità italiana, in merito ai tumori ginecologici, il professore ha dichiarato: “Sono estremamente soddisfatto del livello chirurgico dell’Italia, anche a livello scientifico il nostro Paese ha assunto un ruolo prominente a livello mondiale. Rimane ancora una pecca organizzativa sul fatto che la centralizzazione dell’oncologia rimane un problema – ha concluso -. Alcune regioni sono più avanti di altre e questo è l’unico passaggio ancora da fare”.