Peter Brook è stato il gigante del teatro capace di creare palafitte per l’anima, quello che in Africa ( dove tutto è invisibile, come lui ripeteva spesso) ha lavorato, ricercato, sperimentato, dentro una verginità salva dall’alienazione delle nostre realtà urbane, il rapporto dell’uomo con se stesso, con l’altro, con lo spazio e creare e preservare luoghi in cui lo spirito umano può ancora abitare. Nulla si confà all’anima quanto il vuoto, ma il vuoto è uno spazio difficile da abitare per l’uomo contemporaneo, lo atterrisce perché lo costringe di fronte a quell’estranea inascoltata, vittima e tiranna, che ha nome anima. Per questo ci si incatena alle sbarre di qualsiasi rabbia, dolore, architettura, perché non sappiamo più come si abita il vuoto e la libertà di ogni direzione. Peter Brook ha lavorato a lungo alla tempesta, non reputandola mai finita, ma un progetto in divenire, da qui il titolo dello spettacolo portato al Romaeuropa festival, le cui geografie con la direzione generale e artistica di Fabrizio Grifasi, tracciano percorsi capaci di tenere insieme nuove voci della scena e pietre miliari del teatro contemporaneo: dal 26 settembre al 1°ottobre all’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, Romaeuropa Festival ha omaggiato il maestro Peter Brook, tra le figure più emblematiche e rivoluzionarie della storia del teatro, con Tempest Project, l’ultima rivisitazione del celebre testo shakespeariano La tempesta diretta insieme a Marie-Hélène Estienne, drammaturga e regista sin dal 1977 accanto al grande Maestro.
Gigante della scena, Peter Brook fin dal suo esordio ha fatto del suo amore per Shakespeare e per la parola evocativa il suo terreno di studio che, unito a un disarmante ingegno scenico puntato all’essenzialità della comunicazione verbale e non verbale, lo ha portato negli anni a radunare attorno a sé una comunità multiculturale e plurilinguistica di attrici e attori, cuore pulsante per una sfida alla radicalità della rappresentazione delle opere shakespeariane.
Assistere a questo spettacolo è stata una lezione dirimente sulla profonda verità legata alla postura che Brook ha insegnato rispetto allo spazio: “posso prendere qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo un nudo palcoscenico. Una persona attraversa questo spazio vuoto mentre un’altra la guarda e ciò basta a dar vita a un’azione scenica”. Così lo spazio in cui gli attori si muovono è una sorta di cerchio sacro dentro il quale ogni orpello, ogni altare, ogni oggetto non è che distrazione e volgarità, rispetto alla grandezza assoluta dei sentimenti dell’uomo e delle maree che questi agitano in lui. Come naufraghi a ritroso nel tempo, gli attori tornano dentro una dimensione passata e magica, in cui il rapporto con la natura era permeato dalla meraviglia. Mai è stato più facile viaggiare a piedi nudi sopra i secoli.
Marie-Hélène Estienne torna al festival a cinque anni di distanza da The Prisoner, per consegnare al pubblico il lungo lavoro condotto insieme al regista intorno a La Tempesta, condensando in questa messa in scena una profonda riflessione intorno alla libertà che «arriva come un suggerimento e che risuona in tutto il testo come un’eco». È così che in questo dramma-testamento tutti i personaggi sono imprigionati da un incantesimo di impossibilità, da Calibano e Ariel che desiderano spezzare le catene della schiavitù, a Miranda segregata dal mondo, fino a Prospero che deve liberarsi dal compito che si è prefisso, la vendetta e tutto ciò che ne consegue e che gli impedisce di essere libero.
Il segno indelebile di Peter Brook sulla storia del teatro internazionale ha più volte incrociato il percorso dei Romaeuropa Festival fino ai più recenti Love Is My Sin (2009), Un Flauto Magico (2011), The Suit (2013) e il già citato The Prisoner (2018). Portando i segni distintivi del suo scarno codice registico (panche di legno, bastoni-scettro, lunghe tuniche e sciarpe, il proverbiale tappeto) e con cinque interpreti di differenti nazionalità,Tempest Project evoca ancora una volta tempi e ritmi di un chirurgico rituale, abbandonando il parlato a un’armoniosa traduzione francese, curata insieme a Estienne. «La tempesta è un enigma, è una favola in cui nulla sembra poter essere preso alla lettera e se rimani in superficie la sua qualità nascosta ti sfugge» scriveva Brook nelle note di regia. Sapienza – Università di Roma e Romaeuropa Festival omaggiano Peter Brook giovedì 28 settembre alle 16 presso l’Aula Magna delle Ex Vetrerie Sciarra con un incontro aperto al pubblico con Marie-Hélène Estienne e la compagnia a cura del professore Guido Di Palma e della professoressa Marta Marchetti. La professoressa Marchetti inoltre, col suo corso di “Teatro in Europa” affronta e approfondisce la relazione tra teatro e carcere. E proprio pensando al rapporto con lo spazio di Brook e allo spettacolo The prisoner non è possibile evitare l’assonanza con The Island (1973), riscrittura sudafricana dell’Antigone di Sofocle. L’opera fu ideata da Athol Fugard, il più acclamato drammaturgo sudafricano bianco contemporaneo, assistito da John Kani e Winston Ntshona, due attori-attivisti, nonché gli unici interpreti della pièce. Nell’opera drammatica di Fugard la storia di Antigone si cala in un evento realmente accaduto in pieno interregno apartheid: Nelson Mandela e altri prigionieri misero in scena l’Antigone nella prigione di Robben Island, l’isola-penitenziario al largo di Città del Capo. Il teatro diventa così uno strumento al servizio della resistenza e della resilienza interiore, non solo intrattenimento. Fugard realizza una scena minimalista, priva addirittura del palcoscenico, in cui gli attori non avevano alcuna mediazione con lo spazio. Niente è nudo come la verità.
Fonte foto: https://romaeuropa.net/ – © Marie Clauzade