Salvini non è più “l’uomo solo al comando” che sì è descritto e ha voluto farsi percepire da qualche anno in qua. Non lo è nelle istituzioni, dopo la sua fuga di mezza estate dal governo, non lo è più nel suo stesso partito, dopo la pesante delusione nelle elezioni dell’Emilia Romagna e in vista di uno o più possibili procedimenti penali di vario peso in cui rischia di impantanarsi per non si sa quanto tempo.
Il congresso lampo, celebrato in meno di 24 ore a dicembre, dopo aver reso una frettolosa sepoltura alla vecchia Lega separatista/federalista/nordista di Bossi, aveva sancito il trionfo del “condottiero tutto d’un pezzo” che aveva portato in pochi anni un partito esangue dal 3% ad oltre il 30%.
Ma anche nella Lega, più nazionalista che nazionale, di Salvini vale uno dei principi generali della politica: fin quando vinci sempre, va tutto bene, ma se cominci a perdere colpi, le critiche sopite cominciano a venire a galla e con esse anche le falle del tuo prestigio e potere personale.
Detto in breve, Salvini non ha più carta bianca dallo stato maggiore leghista e d’ora in poi dovrà fare i conti sempre più con le idee e le posizioni di un gruppo dirigente che non è fatto solo da un codazzo di yes man ma anche da avveduti e intelligenti personaggi.
Facendo percepire sé stesso – attraverso la sua macchina propagandistica (la Bestia) – come un “capitano” audace, inflessibile, che non torna mai indietro e non si piega davanti a nulla e nessuno, Salvini aveva trascinato anche l’immagine del suo partito in questa iconografia monolitica.
Salvini era, probabilmente, convinto che la forza della Lega dipendeva anche dall’inesistenza del dibattito interno e dalla cieca obbedienza al capo carismatico cui militanti e dirigenti avevano delegato qualsiasi decisione come se fosse dotato di una qualità di cui perfino l’attuale Papa comincia a dubitare di essere depositario: l’infallibilità.
La sconfitta in Emilia Romagna deve essere stata vissuta da alcuni personaggi della Lega come una sorta di occasione irripetibile per riaprire le finestre e far entrare aria nuova nelle stantie stanze del potere monocratico salviniano.
La Lega non è più un blocco unico formato da un presunto unico metallo di rara durezza, una sorta di iridio o grafite politica. No. La Lega è un insieme di componenti, in cui esistono, per fortuna, anche “metalli” più elastici e malleabili che non indeboliscono ma possono perfino rafforzare la “tenacia” del partito.
L’immagine della Lega di Salvini, più dura che pura, era fatta di questi ingredienti: ostilità all’Europa e soprattutto all’euro, vicinanza a democrazie illiberali, a regimi autoritari e autocratici, simpatie maggiori per la Russia che per l’America, toni aggressivi, rozzi, linguaggio e atteggiamenti grevi e inclini all’intolleranza e alla brutalizzazione dei problemi, eccessivi richiami agli istinti più irrazionali del popolo e crescente distanza dal moderatismo che caratterizza gran parte del ceto medio, dell’imprenditoria e del mondo delle professioni e del management, il tutto condito da un nazionalismo esasperato che scavalca a destra perfino le posizioni di un partito tradizionalmente più vicino agli umori nazionalistici come Fratelli d’Italia, senza tuttavia contrastarne il crescente consenso. Insomma un minestrone un po’ indigesto per chi vuole una politica conservatrice, moderata, legata ai principi del mondo occidentale e senza tentazioni avventuristiche.
Questa immagine della Lega non è più incondizionatamente accettata o subita, la realtà interna del partito è più articolata. La voce di Giancarlo Giorgetti si è fatta, sentire e con lui sembrano riprendere spazio le posizioni di altri dirigenti che, a differenza di Salvini, hanno avuto, o hanno ancora, responsabilità di gestione della cosa pubblica – come i Governatori di Regioni a guida leghista – che sono per questo abituati a ragionare, a dialogare con i diversi interessi in campo e a cercare equilibrate mediazioni e non fughe irrealistiche e solitarie che enfatizzano posizioni di rottura.
Una Lega più duttile e malleabile può mettere in soffitta il “salvinismo” esasperato e riposizionare il partito in una collocazione moderata, tranquillizzante per ampi strati sociali, ancorata saldamente, seppur in modo critico, all’Europa e all’Occidente, senza tentazioni estremistiche e antidemocratiche pericolose.