Tranquilli: non ho opinioni personali da esprimere sul Ponte sullo Stretto.
Non sono né pro, né contro. Sono favorevole come lo sono sempre e comunque per qualsiasi novità: sono le cose nuove che evolvono e cambiano la vita. Lo status quo, lo stare immobili, è morte, di per sé, il nemico di qualsiasi progresso. Se c’è una strada che non conosco la prendo ad occhi chiusi, perché ho sempre più voglia di non sapere quello che trovo, della sorpresa, della novità.
Sono favorevole anche di fronte all’odioso argomento – troppo spesso usato in Italia da politici ottusi e non lungimiranti – che una determinata opera non sia una priorità. Per fortuna dell’uomo e dell’umanità, quasi nessuno dei monumenti e dei reperti storici che ammiriamo ha costituito, al tempo della sua realizzazione, una priorità. Ma sono proprio quelle opere non prioritarie che hanno determinato lo sviluppo e l’evoluzione storica e che hanno lasciato un segno per i posteri.
Soppeso con molta attenzione gli argomenti ecologisti. È chiaro che un’opera come quella incide sull’ambiente e lo altera. Ma ciò è inevitabile, qualsiasi essere vivente, del mondo animale e di quello vegetale, determina un cambiamento col suo semplice esistere. La desertificazione di parte del pianeta è avvenuta senza che l’attività dell’uomo incidesse più di tanto, perché la terra è viva, e fin quando sarà viva cambierà. E per incredibile che possa sembrare continuerà a cambiare anche da morta.
Neppure, continuando nell’analisi degli argomenti, mi convincono le stucchevoli argomentazioni dei no-ponte che l’opera non si può fare perché unirebbe mafia e ‘ndrangheta, più che l’Italia alla Sicilia.
Qui, veramente, devo esprimere un mio profondo dissenso ed una non sopportazione di tale argomento che, spinto alle sue conseguenze estreme, è addirittura razzista. Un argomento che ai giovani offre solo l’alternativa dell’emigrazione: se resti in Sicilia o in Calabria non ti muovere, perché c’è la mafia; se vuoi fare qualcosa, emigra. Così un’assoluta minoranza di delinquenti, per di più espressione della parte più incolta dei due meravigliosi popoli siciliano e calabrese, per l’incapacità dello Stato di dominare il fenomeno mafioso determina un deteriore immobilismo.
Non vado oltre perché divagherei dal tema, ma lasciatemi un solo pensiero sul tema. La battaglia antimafia combattuta con la repressione è fallita; 32 anni di Direzione Antimafia non hanno portato a niente riguardo al fenomeno in sé. Neppure le connessioni tra mafia e massoneria e apparati dello Stato sono una novità. Ne parlava apertamente già ai tempi del fascismo, un socialista antifascista militante e per questo rifugiatosi in Francia, Roberto Marvasi (mio avo collaterale), che proponeva già da fine XIX secolo tematiche ancora «di bruciante attualità sia per quel che riguarda la polemica contro la guerra, – contro ogni guerra – sia per quanto concerne la battaglia contro la camorra o meglio contro le contaminazioni tra politica e malavita» (Antonio Orlando, prefazione alla ristampa di Roberto Marvasi, Malavita contro Malavita).
Non è non facendo e non facendo fare che si combatte la mafia, ma facendo bene ed onestamente e facendo in modo che lo Stato faccia lo Stato e non apra alla Malavita. Può farlo soltanto con un’azione preventiva, che è l’unica che conti in una guerra che non può prevedere lo sterminio e che si vince se si offrono alternative sociali e si premia esclusivamente il merito, non il favoritismo ed il comparaggio: valori, questi sì, puramente mafiosi.
Il Ponte dello Stretto è più antico di venti anni della Direzione Antimafia.
La costruzione del Ponte sullo Stretto viene stabilita addirittura per legge il 17 dicembre 1971 (legge n. 1158), rubricata seccamente “Collegamento Viario e Ferroviario fra la Sicilia ed il continente”.
L’art. 1 della legge prevedeva, altrettanto seccamente, che «Alla realizzazione di un collegamento stabile viario e ferroviario e di altri servizi pubblici fra la Sicilia ed il continente – opera di prevalente interesse nazionale – si provvede mediante affidamento dello studio, della progettazione e della costruzione, nonché dello esercizio del solo collegamento viario, ad una società per azioni al cui capitale sociale partecipi direttamente o indirettamente l’Istituto per la ricostruzione industriale con almeno il 51 per cento. Il restante 49 per cento del capitale sociale sarà sottoscritto dall’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato, dall’ANAS, dalle regioni Sicilia e Calabria e da amministrazioni ed enti pubblici».
Chi scrive oggi queste righe, all’epoca aveva diciotto anni, matricola di giurisprudenza alla Sapienza di Roma.
Che la costruzione del Ponte sarebbe stata lunga lo si capì subito: la Stretto di Messina S.p.A. la società concessionaria prevista dalla norma avrebbe visto la luce nel 1981. Il sottoscritto aveva fatto in tempo a laurearsi, a sposarsi e a fare il suo primo figlio.
La neo Società viene autorizzata a stipulare un contratto di appalto col Consorzio Eurolink e Parsons. Ma l’opera non parte: non si sono soldi; la Stretto di Messina S.p.A. viene posta in liquidazione ed è tenuta a pagare il danno per l’appalto non eseguito (qualcuno dice per qualche miliardo; il Governo Monti ha accantonato a bilancio 300 milioni; la vicenda è molto taciuta sia dalla politica che dai media). In buona sostanza: neppure una pietra posta e già il Ponte ha avuto un costo considerevole.
Con la legge di bilancio per il 2023, in forza del comma 491 (491!!!) dell’art. 1 è stata revocata la liquidazione della S.p.A.: con una forzatura del principe, per il quale non vale il divieto posto dall’art. 2487-ter del codice civile: con l’uso, cioè, degli istituti della deroga, della proroga e della surroga con cui la scaltra e dotta burocrazia, travalica l’inetto ed inconsapevole legislatore.
La rediviva S.p.A. realizzerà questa volta il Ponte? Nella zona dello Stretto nessuno sembra crederci e pochissimi se ne importano. Per le esigenze ed il traffico locale (tranne nei periodi di afflusso turistico come questo agosto) la questione è addirittura marginale. Il pericolo è che si realizzi una ennesima mega struttura “regalata” al Meridione, senza essere richiesta, che non risponde ad una autentica necessità e che rimanga estranea al territorio come il Porto di Gioia Tauro, che non dà lavoro ai calabresi. O, peggio, come la fabbrica di Saline Joniche, che non ha dato neppure un’ora di lavoro, ma più di vent’anni (23 per essere pedanti) di cassa integrazione a 750 dipendenti (un assegno di cittadinanza alla calabrese): megastruttura anch’essa stabilita nel 1971, completata a tempo di record nel 1974 e chiusa molto opportunamente (le bioproteine che avrebbe dovuto produrre erano cancerogene) giusto pochi giorni dopo l’assunzione degli operai.
Non ho opinioni, ma, lo avrete capito, molto scetticismo.