Recita una canzone di De Andrè: “si costerna, si indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità”, riferendosi a uno Stato latitante rispetto alla sete di giustizia della gente; ora questi versi mi vengono in mente, come parole perfette per descrivere la postura della nostra società rispetto alla questione iraniana. È di questi giorni, infatti, la diffusione mediatica, tiepidamente raccolta dalla nostra popolazione, che la polizia morale sia tornata ad insidiare, vessare, terrorizzare le donne iraniane in strada. Ma la verità è che quella polizia non è mai andata via, siamo noi ad essere andati via, con lo sguardo e con l’attenzione del pensiero, dalla situazione iraniana. Occorre quindi, come obbligo almeno morale, il ripristino della verità, senza l’illusione che questo basti a suturare così profonde e slabbrate ferite, figuriamoci a guarirle. Per curare la piaga marcescente del governo iraniano, che solo violenza e morte ha per confine, occorre una rivoluzione globale del pensiero e un coraggio che a noi occidentali manca. Li abbiamo dimenticati, che è la forma più alta di abbandono che si possa porre in atto; siamo riusciti a dimenticare una dimostrazione di vita, coraggio, coesione tra donne e uomini, senza precedenti, come è stata questa rivoluzione dalla morte di Mahsa Amini. No, noi non “siamo tutti Mahsa”, loro, gli iraniani che continuano a farsi picchiare, incarcerare, ammazzare, “sono tutti Mahsa”. No, noi non siamo le donne che lottano perché nessuna donna sia perseguitata, noi non siamo le cittadine del mondo in cui tutte hanno gli stessi diritti, noi, al più, siamo turiste e non ci tagliamo più i capelli, perché d’estate lunghi stanno meglio. Ripartiamo da qui e facciamo insieme il punto della situazione (con la propria coscienza ognuno di noi lo faccia da sé).
Questi gli ultimi fatti:
Il Ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian (lo stesso che lo scorso febbraio, nella sessione annuale di apertura, ha generato la reazione indignata di abbandono dell’aula da parte di alcuni membri del consiglio per i diritti umani dell’ONU) la settimana scorsa ha invitato il segretario generale delle Nazioni Unite a prendere una linea dura sulla ripetuta profanazione del Sacro Corano in Svezia.
Il ministro degli Esteri iraniano ha infatti indirizzato una lettera al capo delle Nazioni Unite Antonio Guterres, poche ore dopo che Salwan Momik, un rifugiato iracheno residente in Svezia, ha calpestato una copia del Corano e preso a calci il libro sacro musulmano durante una manifestazione davanti alla moschea principale di Stoccolma, sotto stretta protezione previsto per il raduno dalla polizia svedese.
L’atto sacrilego ha aperto le porte alla protesta in tutta la comunità musulmana mondiale, anche in Iran, che ha convocato l’ambasciatore svedese a Teheran, esprimendo la veemente condanna della Repubblica islamica per l’atto atroce. Inoltre l’ayatollah Khamenei ha chiesto la consegna dell’autore del gesto alla esortando il governo svedese a consegnare l’autore ai sistemi giudiziari dei paesi musulmani per la punizione più severa. Contemporaneamente in terra iraniana non sono stati mai scarcerati i detenuti, come proclamato con finti proclami volti, con successo, devo purtroppo constatare, ad abbassare l’attenzione del mondo occidentale. Due esempi per tutti:
I due giovani che sono stati condannati a 10 anni e sei mesi ciascuno di carcere per un ballo sotto la Torre Azadi di Teheran non sono mai stati scarcerati. Qualcuno si domanda che fine faranno? Sephideh Golian, che sta marcendo nei corridoi di dolore della prigione di Evin, perché appena scarcerata, a marzo scorso, ha espresso parole contro Khamenei è stata di nuovo riportata in carcere e lì resta. Bisogna ricordarlo bene che questa giovanissima giornalista freelance ha pagato con quasi cinque anni di reclusione la sua testimonianza al mondo di tutte le aberrazioni di cui è capace il regime iraniano, che possiamo leggere nel suo libro “diari dal carcere”; e bisogna sapere che, proprio in questi giorni, all’udienza fissata per lei in tribunale, Sephideh si è presentata ancora senza l’hijab davanti ai giudici, che hanno preferito per ora invalidare l’udienza. Intanto il clima estivo in Iran è festeggiato a suon di arresti:
giorni fa, alcuni corridori di Bandar Abbasi hanno denunciato l’arresto di atlete sulla spiaggia di Khaja Ata in questa città alle 5 del mattino da parte della pattuglia di guida.
Nel racconto di Arash Rahimi, un corridore, si legge: “Sono passati 6 giorni dal primo attacco della pattuglia dell’Irshad all’atleta sulla spiaggia. Per diversi giorni ci si allena per un’ora con stress, palpitazioni e terrore, alle 5 del mattino con 45 gradi di calore e 80% di umidità… nonostante questo l’ordine è di arrestare chiunque non indossi tuniche e pantaloni lunghi e velo per le donne.
Non pago di violenza e soprusi l’Iran minaccia qualsiasi governo intralci la sua barbarie, come dimostra la convocazione dell’ambasciatore italiano a Teheran, Giuseppe Perrone a causa della recente partecipazione di Maryam Rajavi a un evento al Parlamento italiano. La Rajavi è leader del movimento dissidente Mujahedin Khalq Organization, ritenuto dall’Iran un’organizzazione terroristica. “Ospitare una criminale terrorista significa incoraggiare e promuovere il terrorismo e la Repubblica islamica non tollererà mosse di questo tipo in alcuna forma da parte di nessuno”, sostiene Teheran. L’Iran inoltre “esorta il governo italiano a dimostrare la propria serietà nell’impedire che il Paese diventi un rifugio sicuro per i terroristi”. Per Teheran quanto accaduto “danneggerà oltremodo l’immagine dell’Italia agli occhi dell’opinione pubblica iraniana”. L’ambasciatore italiano ha risposto che informerà quanto prima le autorità italiane.
Per finire, quel che mi sembra profilarsi è una fiducia esclusiva sulle proprie forze, come dimostra anche l’ultimo video arrivato dall’Iran, di una giovane insegnante di tedesco che risponde agli insulti di un poliziotto che la rimprovera per non aver indossato l’hijab. «Non cercare di spaventarmi, lotterò per sempre per i miei diritti», dice Parmida Shahbazi al poliziotto che la accusa di essere «una criminale». Il video è diventato virale, quale simbolo della resistenza delle donne. In realtà questo video viene a confermare l’irreversibile distanza di tempra tra noi e quel popolo, quelle donne, come Sephideh, coraggiose quanto noi non saremo mai: se il popolo iraniano si libererà lo farà da sé, senza più nemmeno chiedere aiuto. Questo dovrebbe farci vergognare ancora di più.