venerdì, 22 Novembre, 2024
Società

C’era una volta l’IRI. L’Italia ne avrebbe ancora bisogno

È stato il più longevo ente pubblico economico italiano e, forse, mandato in pensione quando ancora poteva servire tanto al Paese. Con sede nella Capitale, l’IRI viene fondato il 24 gennaio del 1933 dal Governo Mussolini, con la concreta partecipazione del dirigente pubblico, economista e politico italiano Alberto Beneduce che ne diviene il primo presidente e di Guido Jung, Ministro delle Finanze nei Governi Mussolini e Badoglio, col principale intento di salvare le banche troppo esposte con l’industria.

Per capire le origini dell’IRI bisogna tornare indietro nel tempo. Il primo Governatore della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher nel 1913, questi aveva  deciso di costituire un organo permanente per provvedere al finanziamento e al risanamento delle aziende in crisi, denominato Consorzio per Sovvenzioni su Valori Industriali, guidato dalla Banca d’Italia e che riunisce i Banchi di Napoli e Sicilia, alcune Casse di risparmio, il Monte dei Paschi di Siena e l’Istituto Bancario San Paolo di Torino.

La riconversione da industria bellica rispetto alla domanda in tempo di pace, dopo la prima guerra mondiale, è lenta e anche sofferta, travolgendo alcune banche.

È nel 1926 che il Consorzio Sovvenzioni viene trasformato in Istituto dotato di personalità giuridica, denominato Istituto di Liquidazione, mentre in soli pochi anni, nel 1930, la crisi di liquidità del Credito Italiano porta questa banca sull’orlo della bancarotta, evitata con la fusione del Credito con la Banca Nazional del Credito (BNC) costituita per liquidare la Banca Italiana di Sconto.

Per la perdurante situazione di crisi finanziarie sono poste in essere altri espedienti nel trasferire partecipazioni finanziarie e crediti a lungo termine in due finanziarie e cioè le partecipazioni in società industriali nella Società Finanziaria Italiana (SFI).

È proprio a seguito della perdurante situazione di crisi – compresa quella  del 1929, alla quale neanche la Banca Commerciale Italiana riesce a resistere, la Banca d’Italia, molto esposta verso l’Istituto di Liquidazione ed altre banche – che si pensa alla fondazione dell’IRI Con riassetti, privatizzazioni e incorporazioni a cui non sfugge neanche l’Ansaldo a seguito del crollo e al successivo fallimento della Banca Italiana di Sconto, anche il Banco di Roma, fondato nel 1880 e fino a quella data controllato dall’IRI, viene rilevato dalla Società Nazionale Mobiliare, controllata per il 26% dal Consorzio Sovvenzioni e per altro 26% dalla Banca Commerciale Italiana, ora Intesa San Paolo, e dal Credito Italiano.

La storia dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale inizia proprio con la crescita economica e industriale dell’Italia, dopo la depressione degli anni trenta  e la ricostruzione post bellica. I suoi veri momenti di gloria si vivono nel periodo degli anni ‘50 e ‘60, definito “miracolo IRI”, nel quale periodo l’ente pubblico investe in autostrade, navi, telefoni, credito e acciaio. Il suo evidente declino inizia negli anni ‘70 a causa di una intensa fase di clientelismo politico che condiziona l’Istituto ad assunzioni e salvataggi.

Numerose sono le società incorporate, tra le quali, nella sola Fintecna, si trovano ben 18 controllate: Alfa Romeo, Alitalia, Autostrade, Banca Commerciale Italiana, Banco Roma, Cofiri, Credito Italiano, Fincantieri, Finelettrica, Finmare, Finmeccanica, Finsider, Finsiel, Italstat, RAI, SME e STET.

Sin dal dopo guerra l’IRI ha sempre più allargato i settori di interesse, proprio per la ricostruzione in senso ampio della Nazione.

Nel 1980 riesce a toccare il traguardo di mille società con più di 500 mila dipendenti, tanto da conquistarsi, anche per questo, l’appellativo di “carrozzone”. I settori merceologici, logicamente, variavano dall’alimentare all’aerospaziale, all’auto, alle costruzioni navali, alla chimica, all’editoria, alla finanza, all’informatica, alla microelettronica, alla metallurgia, alle telecomunicazioni e ai trasporti.

Nel 1992, a seguito della chiusura del bilancio con un fatturato di circa 76 miliardi di lire e una perdita di oltre 5 miliardi, il Capo del Governo dell’epoca, di concerto con i Capi dei Ministeri Tesoro e Industria, decide di trasformarlo in società per azioni e di iniziare a tagliare i rami secchi, fino che, alla fine, nel 2000 si procede alla chiusura.

E Fabrizio Barca, consulente del Ministro del Tesoro di quegli anni, tira fuori osservazioni, considerazioni e riflessioni: “ma ora il Paese non rinunci a programmare”. “L’IRI chiude, forse in ritardo. La domanda da farsi diventa: cosa apriamo”? Quali istituzioni mettiamo in campo per colmare il vuoto?”.

Barca invita a fare il classico passo indietro. “L’IRI aveva due obiettivi: a) dare capitali a mani che li sapessero usare; b) essere strumento dello Stato per programmare l’economia”.

Se nell’espletare il primo compito l’Istituto si è dimostrato in passato “una grande impresa moderna”, oggi il sistema Italia non ne ha più bisogno. Il mercato del controllo societario, inclusa la Borsa, è cresciuto significativamente, c’è stata la riforma Draghi, il processo di privatizzazione ne ha fatto passi da gigante, le authority hanno conquistato ruolo e poteri.” Se un ritardo c’è ancora, riguarda – a detta di Barca – il rafforzamento amministrativo del sistema giudiziario. Invece sul fronte della programmazione, il secondo obiettivo che si era posto l’IRI, resta molto da fare. “Ogni Paese di questo mondo ha bisogno di programmare  l’uso dei suoli, lo sviluppo del territorio, la politica delle infrastrutture. Sono altrettanti compiti di cui L’IRI era stato sovraccaricato in maniera indebita, ma che necessitano comunque di indirizzi”.

Che fare, dunque? La risposta di Barca è pronta: “Rafforzare l’amministrazione ordinaria dello Stato. Ed è quanto si è proposto negli ultimi due anni il Tesoro. Un obiettivo portato avanti non in una logica di programmazione centralistico-romana, ma raccogliendo le proposte di sviluppo del territorio maturate dal basso.” Corriera della Sera – pagina economia – del 28 giugno 2000.

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