venerdì, 15 Novembre, 2024
Società

25 Aprile-1 Maggio: libertà e lavoro. La Festa di Tutti

La settimana che chiude il mese di aprile e dà il benvenuto a quello di maggio è per noi Italiani il tempo di celebrare due grandi pilastri della dignità umana: la libertà e il lavoro. Dispiace che il vecchio vizio delle tifoserie politiche di Partito turbino sempre  la Festa della Liberazione. Che la Costituzione e la Repubblica affondino le loro radici nella guerra contro il nazifascismo e nel coraggio e nel sacrificio dei combattenti partigiani di ogni osservanza (comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, repubblicani, monarchici) è cosa di solare evidenza, ma è profondamente sbagliato mischiare quella vicenda eroica con le meschine questioni ed i ricordi affievoliti delle generazioni di oggi.

L’incitamento all’odio in nome della Resistenza è un grave errore da non commettere. Piero Calamandrei, giurista insigne e deputato alla Costituente per il Partito d’Azione, nella lapide da lui dettata in risposta alla provocazione del feldmaresciallo Kesserling, comandante delle truppe tedesche in Italia (che aveva dichiarato in un’intervista che il nostro popolo avrebbe dovuto erigergli «un monumento») definisce la Resistenza come «patto giurato fra uomini liberi, che volontari si adunarono per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo».

Per dignità, non per odio. Perché la prima cosa che viene tolta a chi è privato della libertà è la dignità: dignità di disporre liberamente della propria vita, di essere artefice del proprio destino, di poter esprimere ragionevolmente  se stessi. La libertà la capisci e la apprezzi soprattutto quando viene a mancare, quando cominci ad avere fame di libertà se ti è negata. La lezione del 25 aprile è il monito ad ognuno di noi di rinnovare quell’impegno di libertà conquistata  che ognuno ha diritto di avere  e combatterne il suo ostracismo fino a dare la propria vita.

Ma si può parlare di esistenza dignitosa se manca il lavoro? Può esserci libertà nella miseria, può esserci affermazione di sé se non ci si realizza innanzitutto in un’attività, in un fare, in un contributo allo sforzo comune di una collettività? Quello che è sostanza del Primo Maggio, anch’esso inutilmente funestato da logiche di appartenenza, è che il lavoro, anche per la Costituzione, è il fondamento della Repubblica, e quindi di tutti.

Festeggiamo il lavoro, punto. Non il lavoro dipendente o autonomo, pubblico o privato, esecutivo o professionale, salariato o manageriale. Lavoro come espressione dell’uomo, che rimane tale proprio per il suo fare, per il suo impegno, per la sua capacità di trasformare la realtà intorno a sé. A questa stregua non c’è chissà quale differenza fra l’artigiano che fa di un pezzo di legno una sedia al chirurgo che guida un robot di ultima generazione, fra l’architetto che progetta un edificio ardito e innovativo e il portalettere che consegna cartoline lettere e pacchi.

Nulla è più sommamente umano del lavoro, che proprio per questa sua caratteristica non può essere quello asservito e inconsapevole. È lavoro se è dignitoso, fondato su patti non rapaci, non regolato dal semplice capriccio del mercato o dalla volontà di potenza dell’imprenditore. Lavoro socialmente riconosciuto in tutti i suoi aspetti, da quello morale a quello economico. Perché c’è un’altra cosa, oltre alla dignità, che la libertà e il lavoro hanno in comune: è imprudente darli sempre per scontati. Cerchiamo di non farlo, e non solo per questa bella settimana votiva  ma per tutti i giorni dell’Anno.

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