Uno dei segnali più sconcertanti del livello piuttosto basso del dibattito politico in Italia riguarda l’enfasi posta sulla tematica dell’immigrazione e lo scarsissimo rilievo con cui viene esaminato il problema dei giovani laureati che vanno all’estero.
A sentire le urla dei populisti e dei neo-nazionalisti, il principale problema dell’Italia sarebbe una presunta invasione di portata biblica da parte di immigrati che arrivano, in gran parte su barchini e barconi, molti dei quali usano l’Italia come Paese di transito per dirigersi altrove.
Gli stessi populisti e neo-nazionalisti non si pongono invece il ben più serio e grave problema della fuga dei cervelli e della continua migrazione verso altri Paesi di tanti giovani italiani dotati di ottimi titoli di studio.
Secondo recenti dati Istat, nel 2018 il 53% di chi se n’è andato era in possesso di un titolo di studio medio-alto.
Si tratta di circa 33mila diplomati e 29mila laureati. Rispetto all’anno precedente diplomati e laureati emigrati sono in aumento (rispettivamente +1% e +6%) e l’incremento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto a cinque anni prima gli emigrati con titolo di studio medio-alto sono aumentati del 45%.
Questo dato è allarmante perché è sintomo di un progressivo impoverimento del nostro Paese e rappresenta un danno elevatissimo per l’economia nazionale.
L’Italia spende molto per formare tanti giovani e poi li perde finendo per arricchire altri Paesi con le competenze acquisite da noi. Il danno è triplo: investiamo risorse su persone che poi non contribuiranno allo sviluppo dell’Italia ma dei suoi concorrenti e che, con la loro fuoriuscita, peggioreranno il livello medio della qualità della nostra forza lavoro. Un vero capolavoro.
Di questo parlano solo le statistiche ma non i politici, né quelli del centro sinistra né, soprattutto, quelli della destra che si preoccupano di qualche migliaio di immigrati che vengono da noi e che, se opportunamente instradati sul mercato del lavoro, andrebbero a colmare lacune in alcune attività che, notoriamente, gli italiani non hanno alcuna voglia di svolgere.
Il guaio è che senza immigrazione -controllata ovviamente- molte fabbriche chiuderebbero e tanti lavori che vengono svolti a prezzi molto contenuti o non sarebbero più svolti per carenza di disponibilità di lavoratori italiani disposti a farli oppure costerebbero il doppio.
Parallelamente, con una continua fuoriuscita di lavoratori qualificati, di diplomati e laureati, l’Italia rischia di non riuscire a coprire neanche più i posti di lavoro qualificati e deve far ricorso a risorse umane provenienti da Paesi dove la qualità della formazione non è paragonabile a quella italiana, con conseguente perdita di competitività.
Non c’è mai stata una seria riflessione sul perché tanti diplomati e laureati capaci preferiscono lavorare all’estero. Eppure è questo il vero problema da porsi.
In alcune rubriche giornalistiche che dedicano attenzione a questo fenomeno i giovani espatriati lamentano forti disagi: il basso trattamento economico, gli sbarramenti burocratici- normativi e di fatto che impediscono la loro valorizzazione professionale e le loro carriere.
E, cosa grave, queste lamentele non riguardano solo le istituzioni pubbliche ma anche le aziende private.
Esiste, dunque, un grave problema nazionale, trasversale al settore pubblico e quello privato che consiste nel disincentivare i migliori ragazzi a fermarsi in Italia: vengono pagati poco, sfruttati per troppo tempo prima che possano emergere e le selezioni non avvengono su base rigorosamente meritocratica.
Vorremmo che il Parlamento dedicasse a questo tema un dibattito approfondito che sfociasse anche in una serie di proposte di intervento per invogliare i giovani a restare in Italia e incentivare chi se ne è andato a tornare nel proprio Paese.