Il tetto al prezzo del gas, le misure anti-inflazione delle Banche centrali e le ripercussioni sull’economia europea dell’aumento del netto apprezzamento del dollaro. Sono temi complessi su cui abbiamo chiesto il parere del Prof. Aldo Livolsi banchiere ed advisor, esperto internazionale dei mercati finanziari.
Prof. Livolsi, la Commissione europea sta lavorando su due tipi di tetto al prezzo del gas: il price cap sul gas utilizzato per generare elettricità e il price cap sull’energia scambiata in Europa. Pensa che possano essere misure idonee ad affrontare il caro energia o c’è altro su cui focalizzarsi?
Il tema del rincaro del gas russo e dell’emergenza energetica sta avendo conseguenze negative non solo sulla vita delle persone e delle aziende, ma anche sulla coesione dell’Unione europea. Lo ha dimostrato il vertice informale di Praga di fine settimana scorsa, che ha rinviato la decisione concreta sull’energia al Consiglio del 20-21 ottobre. La situazione era diventata tesa dopo l’annuncio fatto il 29 settembre dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz, di introdurre uno scudo di 200 miliardi per il proprio Paese – provvedimento che peraltro è stato giudicato poco trasparente e pesante per il debito pubblico dalla Corte dei conti tedesca. Credo che l’ipotesi del tetto impiegato sul gas per generare energia elettrica abbia dei limiti perché, come è anche stato ricordato al meeting della capitale ceca, ignora i due terzi del mercato e disincentiva la riduzione dei prezzi in quanto gli importatori saranno compensati per qualsiasi costo paghino. Inoltre, il valore all’importazione potrà continuare a salire, richiedendo più risorse per mantenere il tetto. Si è parlato di un’altra proposta. L’Italia si è fatta fautrice, insieme a Grecia, Polonia e Belgio, di un price cap dinamico, che preveda un valore centrale della materia prima che potrà essere rivisto regolarmente. A mio parere, serve una rivisitazione complessiva sull’approvvigionamento energetico da parte dell’Europa e sul price cap, una visione che che vada oltre la questione del gas, ma includa altri temi come le rinnovabili, l’idroelettrico e il petrolio. Mi sembra, come sostenuto dal presidente del Consiglio Mario Draghi, che qualcosa si stia muovendo. L’intenzione è quella di tentare di diminuire i prezzi a tutti costi, allargando la strategia a paesi extra Ue come la Norvegia, un grande esportatore di gas, petrolio e idroelettrico, fuori dall’Unione ma membro della Nato, trovare nuovi elementi di solidarietà nel meccanismo di stabilità dei prezzi e iniziare una riforma del mercato dell’elettricità. Fondamentale, e qui non si può che concordare pienamente col nostro premier, è ritrovare l’unità politica all’interno dell’Unione europea.
Con il mercato del lavoro e l’inflazione statunitensi estremamente forti e i mercati di capitali non in preda al panico, è stato facile per la Fed continuare a inasprire le misure e a rimanere estremamente prudente. Inoltre, la Banca centrale statunitense ha cercato di convincere il mercato che, a differenza dei cicli precedenti, i tagli dei tassi non saranno effettuati subito dopo aver raggiunto il picco. Ma cosa potrebbe accadere se l’inflazione rimanesse elevata mentre l’economia entra in recessione e i mercati crollano? La Fed smetterà di alzare i tassi e fornirà le tradizionali risposte macro e di mercato, oppure il presidente Powell limiterà il suo volker interiore e resterà concentrato sull’obiettivo di sconfiggere l’inflazione?
Il presidente della Fed Jerome Powell è uno strenuo sostenitore della lotta all’inflazione, che oltreoceano rimane su livelli altissimi. Wall Street ha chiuso in calo nell’ultima seduta della settimana di venerdì scorso dopo che i forti dati sull’occupazione Usa offrono maggiore spazio alla Fed per mantenere una politica aggressiva di aumento dei tassi di interesse. Fondamentale è stato il rapporto sull’occupazione del dipartimento del Lavoro Usa, che ha registrato un aumento dei lavoratori non agricoli a settembre di 263.000 unità, dopo il rialzo di 315.000 in agosto. Il tasso di disoccupazione è sceso al 3,5%, sotto le attese del 3,7%. Gli operatori finanziari stimano al 92% la possibilità che la Fed effettui un altro incremento dei tassi da 75 punti base, rispetto all’83,4% prima della diffusione dei dati. In tale scenario, è naturale prevedere che ci sarà un nuovo innalzamento dei tassi da parte della Banca centrale di Washington. Siamo di fronte a un contesto difficilissimo e molto incerto, con gli sviluppi della guerra in Ucraina, sempre più drammatici, col presidente Joe Biden che ha parlato di rischio Armageddon nucleare. Se è vero che è difficile fare previsioni, la possibilità di recessione mi sembra plausibile. Pur se l’istituto presieduto da Powell agisce indipendentemente, il partito democratico, che oggi esprime il capo della Casa Bianca, non vuole presentarsi alle elezioni di midterm, in programma il prossimo 8 novembre negli Usa – quando saranno rinnovati tutti i seggi della Camera e 34 del Senato – con il Paese in recessione. I sondaggi attualmente vedono Biden sotto la soglia del 40%, che potrebbe perdere il controllo delle due Camere e restare ostaggio dei repubblicani su ogni decisione.
Il gas Usa sta sostituendo quello russo in Europa, gli Stati Uniti stanno facendo profitti stellari, con un dollaro molto forte, questa situazione economica e geopolitica non sta creando troppi vantaggi per gli Usa?
Il dollaro sta registrando livelli record. Quest’anno è salito del 17% su base ponderata e di oltre il 20% rispetto ad alcune valute. È stato osservato che stiamo entrando nel terzo periodo di boom della moneta statunitense degli ultimi 50 anni. È evidente che un dollaro forte può mettere in grande difficoltà le economie sia avanzate sia emergenti. Il valore eccessivo del biglietto verde induce diversi problemi, tra cui l’aumento dell’inflazione importata e il potenziale incremento dei tassi e la volatilità dei flussi di capitale. La soluzione non è facile. La passività mette a rischio gli obiettivi di inflazione e la credibilità, gli aumenti dei tassi rischiano di ridurre la produzione e l’occupazione, l’intervento rischia di bruciare riserve preziose. In vista anche delle elezioni di midterm di cui abbiamo detto, sono convinto che la soluzione potrebbe dipendere molto dalla politica. Non dimentichiamo che l’amministrazione Usa sta spendendo moltissimo sulla guerra in Ucraina, destinando risorse ingenti all’invio di armamenti a Kiev, e che la settimana scorsa Opec e Russia hanno deciso un taglio di due milioni di barili alla produzione del petrolio, il provvedimento più forte dal 2020. La decisione ha inasprito i rapporti tra Washington e i tradizionali alleati Paesi arabi, in particolare quelli con Riyad. Segnali che ci fanno capire quanto gli Usa siano attenti e consapevoli degli odierni equilibri economici globali.