martedì, 19 Novembre, 2024
Sport e Fair Play

Bullismo, molestie e abusi “squalificati” dallo sport

La società civile, negli ultimi anni, è diventata molto sensibile ai temi della salvaguardia dei minori e delle molestie e degli abusi che investono la sfera sessuale.

A fronte di questa accresciuta attenzione sociale, anche i soggetti che per professione, per ruolo istituzionale o per dovere di cronaca si occupano delle problematiche dei giovani, delle dinamiche familiari, delle questioni legate al rapporto tra i generi hanno – in parallelo – saputo interpretare il proprio tempo, rendendosi testimoni dei mutati costumi e facendosi promotori attivi del necessario cambiamento di approccio a tali temi.

Nello specifico del contesto sportivo italiano, sono state adottate iniziative concrete, volte a dare attuazione alle più recenti linee di indirizzo del Comitato Internazionale Olimpico in tema di “politiche di salvaguardia” (safeguarding policies) che, anche all’estero, stanno trovando applicazione pratica, e non solo per il verificarsi di tristi episodi, ma anche perché la nuova e più diffusa sensibilità sociale a questi temi ha trovato, come è giusto, immediata rispondenza pure nel mondo dello sport.

Se da un lato, infatti, tutti conosciamo i benefici dell’attività sportiva svolta con passione, dall’altro, sfortunatamente, lo sport può costituire, potenzialmente, un ambito a rischio e tale circostanza deve costituire una preoccupazione per chiunque agisca o lavori in questo mondo, non perché lo sport sia peggiore di altri ambienti o perché in alcune federazioni o discipline sportive vi siano situazioni limite; non si tratta di stilare classifiche di moralità, né di indicare colpevoli e innocenti o di intervenire per sanare situazioni sfuggite di mano. Nulla di tutto questo.

Il rischio di abuso/molestia/bullismo è sociale ed è corretto – indipendentemente da ogni altro fattore – agire per individuarlo e prevenirlo, riducendo i fattori che possono favorire alcuni comportamenti inaccettabili.

In base ai dati contenuti nel “Bilancio di mandato” della governance del C.O.N.I. nel quadriennio olimpico 2017/2020 “Lo sport costituisce per il nostro Paese la più grande rete sociale e organizzativa in termini di numeri e diffusione. Il C.O.N.I. oggi rappresenta 14 milioni e 200 mila tesserati e oltre 110 mila  società sportive affiliate a una delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate e degli Enti di promozione sportiva”.

Si tratta di numeri importanti e significativi, che rendono il mondo dello sport una componente significativa della società civile, rispecchiandone le molte luci ma anche, inevitabilmente, qualche ombra.

Il Codice di Comportamento sportivo del C.O.N.I. enuncia una serie di principi molto importanti:

• osservanza della disciplina sportiva;

• principio di lealtà;

• divieto di alterazione dei risultati sportivi;

• divieto di doping e di altre forme di nocumento della salute;

• principio di non violenza;

• principio di non discriminazione;

• divieto di dichiarazioni lesive della reputazione;

• dovere di riservatezza;

• principio di imparzialità;

• prevenzione dei conflitti di interessi;

• tutela dell’onorabilità degli organismi sportivi;

• dovere di collaborazione.

I tesserati e gli affiliati sono tenuti al rispetto di tali principi, ed essi costituiscono gli “anticorpi” di cui il mondo dello sport si è dotato per prevenire ogni comportamento inappropriato, sia sul piano morale sia disciplinare sia, infine, penale.

Tuttavia, proprio perché componente significativa della società civile, anche nel mondo dello sport possono verificarsi forme di devianza e, per quel che interessa il tema di questo breve scritto, comportamenti riconducibili a forme di bullismo, di cyberbullismo, di “body-shaming” (la stigmatizzazione del corpo finalizzata ad evidenziarne la non rispondenza ai canoni estetici considerati desiderabili e prevalenti), di “sexting” (l’invio di messaggi e immagini a sfondo sessuale esplicito), di molestie o abusi o violenze concernenti la sfera sessuale. Comportamenti, in ultima analisi, di prevaricazione fisica, psicologica, sessuale e dialettica in aperta antitesi rispetto ai valori promossi dallo sport.

Se, infatti, tutto ciò è inaccettabile in assoluto, chiunque ne sia la vittima, in ambito sportivo macchiarsi di comportamenti di tale natura è ancor più grave – se possibile – perché costituisce un aperto tradimento dei valori, della natura e del senso stesso dello spirito olimpico.

Per quanto riguarda l’ambito sportivo, che spesso vede tra i protagonisti anche i minori, ogni forma di prevaricazione può seriamente compromettere la serenità delle atlete e degli atleti e determinare gravi conseguenze sulla loro persona, sull’armonico sviluppo psico-fisico, sulle prestazioni sportive, fino a poter causare l’abbandono della pratica sportiva, in maniera irreversibile, a tutti i livelli, anche ai più alti.

Una significativa prova di quali effetti devastanti possano essere provocati da fatti di questo genere sugli atleti, viene fornita da quanto accaduto durante i recenti Giochi olimpici estivi di Tokyo alla celebre ginnasta statunitense Simone Biles, non più in grado di competere a causa di patologie che sono state attribuite, insieme ad altre cause, alle conseguenze derivanti dall’essere stata oggetto di abusi da parte del medico federale Larry Nassar, denunciato e condannato anche grazie alla coraggiosa testimonianza dell’atleta, resa però a prezzo di grandi sofferenze psicologiche che ne hanno minato la serenità.

Obiettivo dell’azione del C.I.O., in conseguenza degli scandali internazionali e anche in previsione delle successive Olimpiadi di Tokio, poi svoltesi la scorsa estate, era ed è quello di rafforzare il sostegno agli atleti attraverso significative azioni finalizzate alla loro salvaguardia, adottando politiche e procedure mirate a:

– proteggere gli atleti da ogni genere di abuso;

– proteggere l’integrità dello sport e delle sue istituzioni;

– proteggere chi lavora nello sport;

– promuovere i valori dello sport sicuro.

La “Safeguarding Policy”, cioè la politica di salvaguardia, adottata dal C.I.O. e, quindi, assurta a linea di indirizzo che deve essere adottata da tutto lo sport mondiale, rientra tra le azioni concrete di consapevolezza e prevenzione e cerca di fornire una risposta all’esigenza di contrastare fenomeni degenerativi che non devono trovare né spazi né tolleranza alcuna nello sport, così come nella società nel suo complesso.

Con tale denominazione si intende la codificazione di azioni e comportamenti volti a promuovere il benessere di tutti coloro che fanno parte del mondo dello sport, siano essi atleti, allenatori, dirigenti o operatori di qualsiasi rango e mansione, a proteggere in particolare gli atleti dal danno, dall’abuso e dal maltrattamento, prevenendo danni alla salute e allo sviluppo della personalità.

La strategia di sviluppo di una corretta politica di salvaguardia deve passare da:

– lo sviluppo di politiche e procedure coerenti;

– l’individuazione di meccanismi chiari di prevenzione;

– la corretta gestione delle segnalazioni di qualsiasi tipo di abuso.

Per fare questo, intanto occorre avere chiaro il perimetro delle leggi e delle regole che si applicano al contesto e, poi, rendere esplicito e privo di qualsiasi margine di ambiguità il rifiuto di ogni tolleranza verso atti di abuso, molestia, bullismo e prevaricazione, anche nei documenti ufficiali.

Occorre, poi, il coinvolgimento attivo degli atleti nella definizione delle azioni di contrasto.

È utile anche il coinvolgimento di altri “soggetti”, non solo sportivi ma anche pubblici, come le scuole, o sociali, come le famiglie, che possano fornire specifico supporto e fungere, quindi, da veicolo e sostegno per i messaggi e le azioni pratiche che tali politiche di salvaguardia si prefiggono.

È importante, in primo luogo, definire il perimetro dei destinatari delle politiche di salvaguardia, che può – e deve – spaziare dagli ambiti amministrativi a quelli degli atleti e dei tecnici, ai volontari che supportano l’organizzazione agli staff degli atleti, per finire con le strutture federali, mantenendo una attenzione specifica focalizzata sulle categorie potenzialmente più esposte a rischio, come i minori e gli atleti con disabilità.

Sono fondamentali, a questo medesimo fine, le definizioni terminologiche che riguardano il contesto degli abusi e dei comportamenti prevaricatori, per chiarire il perimetro di interesse e perché fanno chiarezza sull’oggetto delle politiche di salvaguardia, ne possono indirizzare correttamente le azioni, concorrono a favorire l’apprendimento di cosa costituisce effettivamente un maltrattamento, un abuso, una molestia, un atto di bullismo o di prepotenza e di quali siano i fattori che possono favorirne la messa in atto.

La definizione chiara dell’oggetto delle politiche di salvaguardia delimita così il “campo di gioco” all’interno del quale le politiche di salvaguardia si applicano.

Ma la chiara definizione è utile anche nei confronti degli atleti, dei tecnici e di tutti gli altri soggetti che a vario titolo animano le Federazioni sportive, le Discipline sportive associate, gli Enti di promozione sportiva – siano essi i singoli tesserati o le società affiliate -, perché rendono consapevoli i “giocatori” che si muovono in quel “campo di gioco”. Infine, chiarezza di oggetto e consapevolezza di tutti i soggetti interessati costituiscono anche un ausilio prezioso per gli organi inquirenti e giudicanti del sistema di giustizia sportiva, cioè per gli “arbitri” che si trovano a indagare e giudicare i fatti e i comportamenti, poiché, così facendo, si contribuisce a definire le motivazioni per le quali un caso è ritenuto suscettibile di essere perseguito al contrario di un altro, in un contesto chiaro di doveri, diritti e oggettività dei procedimenti disciplinari, che devono sempre rispondere al principio di rango costituzionale del c.d. “giusto processo”.

È importante, in ambito sportivo, che le definizioni terminologiche siano allineate con quelle del C.I.O. e delle norme vigenti, e tra queste appaiono particolarmente meritevoli di attenzione le seguenti:

– quella di “abuso” che può essere fisico, psicologico o sessuale o derivare da negligenza nei comportamenti degli adulti rispetto al disagio dei minori;

– quella di “molestia e/o violenza sessuale”, che investe anche l’ambito penale ordinario;

– quella di “bullismo e cyberbullismo” che, parimenti, è oggetto anche di rilevanza penale;

– quella di “minore”, che deve includere chiunque sia al di sotto dei 18 anni.

Sempre sotto il profilo definitorio, in particolare nell’ambito della sfera sessuale, assume poi particolare rilevanza il concetto di “consenso”, che deve essere informato, volontario e attivo, dimostrato chiaramente con parole e azioni, attuale e non risalente a fatti pregressi, e non ottenuto con la forza approfittando di situazioni di inferiorità, che sia derivante da riduzione della capacità di intendere o da squilibri di ruolo reciproco.

Strettamente legata al concetto di consenso, è la definizione di squilibrio di potere (power imbalance), che si determina ogni qual volta una persona eserciti sull’altra un potere di supervisione, valutazione o comunque di autorità. Nel rapporto tra atleta e allenatore questo squilibrio si deve presumere sempre, indipendentemente dall’età e, in caso di minori, permane sino oltre il raggiungimento della maggiore età dell’atleta, ancorché esso possa trovare un temperamento – da valutare con attenzione caso per caso – qualora si siano verificate relazioni affettive personali antecedenti ed estranee al rapporto sportivo.

Allo stesso modo, è importante definire con chiarezza ciò che costituisce una condotta vietata o controindicata, che non necessariamente configuri una violazione disciplinare e/o penale, ma che diviene tale – e si trasforma in violazione disciplinarmente rilevante – poiché l’appartenenza e la partecipazione al mondo dello sport ufficiale non costituisce un diritto, bensì un privilegio e, come tale, può essere soggetta a limitazioni, a prescrizioni o a divieti che possono investire anche profili ulteriori rispetto a quelli penalmente rilevanti.

Le condotte vietate o controindicate, tali da incidere sulla libera appartenenza al mondo dello sport possono includere:

– l’avere a carico precedenti penali, ancor più se specifici;

– l’aver in precedenza commesso abusi su minori;

– l’aver attuato in precedenza cattive condotte sessuali o atti di molestia e/o bullismo;

– l’aver attuato in precedenza cattive condotte emotive o fisiche;

– l’aver in precedenza tollerato o favorito le condotte inappropriate di cui sopra;

– l’aver posto in essere altri tipi di condotta inappropriata, quali: l’aver intrattenuto relazioni romantiche in ambito sportivo, in costanza di squilibrio di ruoli; l’aver esposto minori a immagini inappropriate; l’aver esibito intenzionalmente situazioni intime; l’aver attuato contatti fisici inappropriati; non aver rispettato le regole di prevenzione di atti di prevaricazione di qualsiasi natura.

Se le politiche di salvaguardia sono importanti in generale, è ancor più importante che esse siano sviluppate in modo specifico anche in relazione al contesto delle competizioni, che per la loro natura collettiva devono costituire un ambito particolarmente monitorato e presidiato.

Un altro fattore di preoccupazione, rispetto al quale occorre agire con attente politiche di prevenzione e formazione, è costituito dalla ritrosia a denunciare i fatti subiti da parte delle vittime o dei loro legali rappresentanti.

Essa costituisce un fattore negativo importante, spesso riscontrato negli studi in materia; essa va contrastata – e superata – definendo procedure chiare e sicure di denuncia, che possono spaziare dal minimo definito dalle linee guida C.I.O. alle migliori pratiche suggerite dalla ricerca e dall’esperienza.

La denuncia precoce in ambito sportivo è molto importante, perché consente di affermare e rendere effettiva l’autonomia della giustizia sportiva rispetto a quella ordinaria, non per banali ragioni di affermazione astratta delle prerogative di essa, ma perché gli indubbi tempi più rapidi del processo sportivo possono consentire di adottare misure cautelari nell’immediatezza dei fatti e di giudicarli con tempestività, eventualmente potendo così contribuire anche alla costruzione del castello accusatorio penale ordinario, grazie alle risultanze dell’indagine sportiva.

La denuncia di condotte inappropriate o illecite deve, quindi, essere veicolata in modo immediato e, se riguarda reati, essere riportata anche alla Giustizia ordinaria, possibilmente attraverso una reportistica interna, uniforme e chiaramente codificata.

La denuncia degli altri tipi di condotta, rilevanti disciplinarmente ma non anche penalmente, può seguire canali interni più articolati, ma deve essere altrettanto tempestiva.

In tutti i casi, comunque, le denunce dovrebbero essere trattate, per quanto possibile, in modo riservato e anonimo, a protezione di tutti coloro che sono coinvolti.

In generale, ma soprattutto in caso di abusi che coinvolgano minori, chi riceve la denuncia dovrebbe astenersi dallo svolgere valutazioni preliminari di attendibilità e attivare immediatamente le Autorità sportive e ordinarie, limitandosi ai soli accertamenti necessari alla denuncia.

In alcuni casi può essere necessario informare del fatto altri soggetti vicini alla vittima, qualora l’accusato abbia contatti anche con essi; è però, in linea generale, opportuno garantire il più possibile un contesto di riservatezza.

È bene sviluppare sistemi di gestione della reportistica affidati a personale preparato e dedicato, che rispetti le quote di genere e che sia in grado di gestire sia il segnalante, sia il caso e la sua vittima.

Infine, fattore non meno importante, deve essere seriamente contrastata ogni forma di ritorsione nei confronti di chi denunci i fenomeni di abuso, circostanza che – tra l’altro – se attuata, costituisce non solo un reato, ma anche una grave violazione delle norme sportive.

Non basta, tuttavia, adottare una politica di salvaguardia e procedure codificate; occorre anche che vi sia una effettività di questa politica, attraverso modelli di implementazione, di comunicazione e di individuazione dei messaggi e comportamenti corretti, anche attraverso l’uso di una adeguata terminologia, che deve essere improntata alla positività, alla assertività e alla rassicurazione.

È opportuna, in questo senso, una attività di formazione ed educazione finalizzata alla prevenzione degli abusi nei confronti di tutti i soggetti adulti, anche quelli che rivestono ruoli tecnici e direttivi negli organismi sportivi, affiancata alla necessaria azione di sensibilizzazione, formazione ed educazione nei confronti degli atleti che, in caso di minori, deve svolgersi con il consenso e anche il coinvolgimento attivo dei genitori.

Tale azione deve essere mirata ad aumentare la consapevolezza di tutti circa il fenomeno, sull’importanza di segnalare ogni caso i fatti di cui siano venuti in qualsiasi modo a conoscenza, sulle figure deputate a ricevere e veicolare le segnalazioni, sulle modalità di reperimento delle informazioni sulla materia e sulle procedure da applicare.

La formazione deve essere finalizzata, tra l’altro, a superare:

– il timore di denunciare;

– la sfiducia nell’efficacia delle procedure di segnalazione;

– la scarsa informazione sul fenomeno e su cosa costituisca oggetto della politica di salvaguardia, nelle singole fattispecie;

– il convincimento che l’assunzione di responsabilità riguardi solo altri;

– il retaggio culturale che favorisce l’abuso, la molestia o il bullismo e ogni altra forma di prevaricazione.

L’attività di formazione, ovviamente, deve tenere conto del contesto di riferimento, delle diverse caratteristiche dei destinatari, delle modalità di somministrazione più adeguate, da adattare e calibrare in funzione dei destinatari stessi.

La comunicazione interna – sia che veicoli le politiche, sia che riguardi le procedure di contrasto ai fenomeni di cui stiamo trattando – è, a sua volta, molto importante e deve essere pianificata in modo da raggiungere i soggetti interessati nella loro totalità. Ciò risulta importante anche per contribuire a rendere effettive le politiche di prevenzione, facendole percepire come concrete dagli atleti e dagli altri soggetti interessati, e non come semplici e astratte affermazioni di principio.

È opportuno, a fini di una adeguata prevenzione, porre particolare attenzione ai comportamenti nelle situazioni di interazione interpersonale diretta ed esclusiva, che deve essere se possibile evitata o, altrimenti, essere osservabile o in presenza di testimoni adulti e sempre suscettibile di essere interrotta da parte di soggetti terzi.

Sotto questo profilo, a titolo esemplificativo, le migliori pratiche in tema di prevenzione di determinati comportamenti di abuso, prevedono che i massaggi sportivi, a cui sono sottoposti atlete e atleti per massimizzare le loro prestazioni, debbano avvenire in spazi aperti e osservabili – così da poter essere interrotti – e, in caso di minori, sempre alla presenza di almeno un altro adulto.

Analogamente, gli spogliatoi non devono prevedere sistemi che consentano una visione remota e non devono vedere la presenza di estranei, inclusi i genitori stessi degli atleti – qualora minori – o di altri adulti, se non per ragioni di emergenza; e la permanenza in essi deve essere monitorata per verificare presenze immotivatamente prolungate durante le gare o gli allenamenti.

In caso di trasferte nazionali o internazionali, vanno, ad esempio, evitati viaggi in auto senza la presenza di terze persone, e i genitori degli atleti minori devono essere sempre informati e garantire il proprio preventivo consenso.

L’uso di social media o di comunicazioni via cellulari, personal computer o altri device, deve essere limitato a fattori professionali, deve essere trasparente e verificabile da altri adulti, avvenire in orari diurni salvo casi di forza maggiore e limitato.

In ultima analisi, l’attività finalizzata alla corretta informazione, alla formazione e alla creazione di una generalizzata consapevolezza in ordine ai fenomeni di cui stiamo trattando ha una specifica finalità: far abbandonare la “cultura della prevaricazione”, a volte insita in ciascuno di noi anche per retaggio culturale più o meno consapevole, per far adottare e rendere parte integrante della personalità di ogni appartenente al mondo dello sport, e di ogni cittadino, la “cultura del rispetto”.

“Rispetto”, infatti, è la parola chiave che deve essere incisa a carattere indelebile nel profondo dell’animo di ogni persona, anche e soprattutto nel contesto sportivo, perché è un concetto che costituisce la pietra angolare su cui deve reggersi ogni altro comportamento e dal quale tutto il resto discende: in assenza di questa premessa, ogni sforzo rischierà di risultare vano.

Come già evidenziato, perché si possa svolgere una efficace attività repressiva in ambito sportivo, è di estrema importanza che vi sia una precoce denuncia alla Procura federale da parte delle vittime o da parte di chiunque venga a conoscenza di fatti disciplinarmente rilevanti; contestualmente – e in assenza di segnalazioni alle autorità inquirenti sportive – è comunque utile un costante monitoraggio dei media che, spesso, veicolano notizia delle iniziative giudiziarie promosse contro chi si sia reso responsabile di violazioni disciplinari sportive che si configurino anche come reato penale.

Sotto questo profilo, il ruolo di impulso e supporto in capo alla Procura Generale dello Sport – non disgiunto dalla sensibilità sulla materia che dimostrano le singole Procure federali – può essere particolarmente utile, anche in relazione alle forme di collaborazione che si possono realizzare con l’Autorità Giudiziaria ordinaria.

La Procura Generale dello Sport, infatti, può giocare un ruolo specifico in materia, a garanzia di un approccio coordinato e coerente nel definire le ipotesi di conclusione delle indagini in caso di conferma della sussistenza delle ipotesi accusatorie.

In questo senso, per sottolineare la gravità delle fattispecie di violazione disciplinari, la Procura Generale dello Sport si è orientata nel senso di non dare il proprio assenso alle proposte di patteggiamento senza incolpazione nei casi di violenza sessuale, di molestie e di bullismo e/o cyberbullismo, ancorché in astratto il vigente Codice di Giustizia Sportiva non escluda, allo stato delle norme in esso contenute, tale possibilità.

Tale orientamento è stato segnalato, peraltro, anche quale proposta di emendamento al Codice di Giustizia Sportiva, così da poter codificare, anche formalmente, l’inclusione di tali violazioni disciplinari tra quelle escluse dalle ipotesi di patteggiamento ed essere recepito in tutti i Regolamenti di Giustizia delle Federazioni sportive Nazionali e delle Discipline sportive associate (peraltro la proposta è stata già introdotta dalla F.I.G.C. nel proprio Regolamento di Giustizia attualmente in vigore).

Inoltre, la Procura Generale dello Sport svolge costantemente un ruolo a supporto delle Procure Federali nei rapporti con le Procure della Repubblica ordinarie per l’ottenimento degli atti giudiziari utili nel sostenere l’azione disciplinare sportiva, così come nel supportare le Procure federali nelle indagini più complesse.

Nel presupposto che la Procura Generale rivesta anche un ruolo di supporto e garanzia della tutela della legalità – anche in termini di promozione culturale e di garanzia della suddetta legalità in un quadro coordinato e coerente, pur nel rispetto dell’autonomia delle singole Federazioni e Discipline sportive – si è inteso fornire supporto e diffusione all’adozione di buone pratiche presso tutte le Federazioni e relative Procure Federali.

Questo è un tema particolarmente delicato, tocca corde particolarmente sensibili, sia con riguardo alla società civile, sia in relazione ai social media e, pertanto, occorre approcciarvisi con particolare attenzione e ampie dosi di equilibrio.

L’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha detto – nel corso di una conferenza pubblica svoltasi a Chicago poco dopo il termine del proprio mandato – che diventare agenti di vero e concreto cambiamento è una faccenda molto seria, ben più complicata dell’ergersi a essere “il più moralista possibile” e dell’arrogarsi il primato di aver denunciato per primo ogni cosa.

Un hashtag, un post, un tweet, la permanente indignazione via social media non costituiscono cambiamento e non configurano “attivismo” concreto.

La cultura della denuncia e dell’indignazione permanente, ha detto l’ex Presidente degli Stati Uniti, il boicottaggio pubblico, lo sdegno esibito, l’idea della purezza sono in realtà una trappola, configurano una accumulazione di “prime pietre” che – in un mondo caotico e complesso – non porta da nessuna parte.

Per cambiare davvero le cose non servono i “leoni da tastiera”, ma occorre andare sul campo, agire concretamente; solo così sarà possibile ottenere cambiamenti concreti e duraturi.

Molti soggetti nel mondo dello sport si stanno muovendo in questa stessa direzione, stanno cioè agendo quali “agenti attivi di cambiamento”, proponendo azioni concrete nel mondo dello sport e buone pratiche in grado di valutare, circoscrivere e prevenire le condotte illecite e quelle controindicate e, nel fare ciò, suscettibili di proteggere tutti: le potenziali vittime, gli operatori, il buon nome della Federazione, dello sport, del C.O.N.I., senza minimizzare e senza enfatizzare.

Con serietà, pragmatismo e professionalità.

Seguirne l’esempio non potrà che migliorare il mondo dello sport e, per riflesso, la società nel suo complesso.

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