Più si avvicina la scadenza del settennato del Presidente Mattarella, più la politica sembra colta da un’ansia da prestazione che, inevitabilmente, la sta conducendo all’impotenza.
La verità è che la politica – i partiti o quel che resta di essi – è ferma, non sa cosa fare, aggrappandosi a Draghi, incapace di esprimere un’alternativa e terrorizzata dall’idea, che con l’elezione del Presidente della Repubblica si potrebbe anticipare la fine del Parlamento dei 945, masochisticamente autoridottosi a 600: con ben 345 onorevoli di sicura rottamazione.
È un declino politico che, a mio modo di vedere, parte da una data precisa: il 9 giugno 1991, il giorno del referendum elettorale di Mario Segni per l’abrogazione della preferenza multipla.
Dall’abrogazione della preferenza multipla, all’abolizione della preferenza come concetto, il passaggio è stato breve. Complice anche l’effetto psicologico (solamente psicologico, perché nulla è mutato, sono cambiati soltanto il rito ed i protagonisti) di “Mani Pulite”, già nel 1994 si votò a liste bloccate: e da allora, al cittadino italiano, è stato concesso soltanto di scegliere i consiglieri comunali e regionali, ma mai più il suo deputato.
Un sistema che, indubbiamente, piacque subito a chi deteneva le leve del comando, ma che trovò vasto consenso anche tra gli italiani: convinti – erroneamente ritengo – che la “preferenza”, come causa del sistema clientelare, fosse all’origine di tutti i mali.
Si è sostenuto, infatti, per giustificare l’attuale sistema delle “nomine” che il voto di preferenza rimettesse nelle mani dei poteri locali, se non addirittura della criminalità organizzata, il controllo dei voti; che con esso i partiti fossero espropriati dal dovere-potere di selezionare i candidati, e che la competizione tra candidati facesse lievitare i costi delle campagne elettorale, favorendo lo scambio corrotto tra singolo politico e cittadino.
Al di là della mera petizione di principio sottesa dal rifiuto del “potere locale” come concentrazione del male e dei vizi della politica, a favore del “potere centrale”, dimenticando che il pesce puzza dalla testa, si tratta di affermazioni tutte contraddicibili in un confronto dialettico.
Ma lo scopo di questa nota non è di spiegare la validità delle opinioni opposte, ma di analizzare le conseguenze del sistema sulla vita politica del Paese.
La più vistosa è quella di non sapere chi comanda realmente, risultando anche le leadership di partito, non solamente la designazione dei deputati, molto spesso delle “nomine”.
Cioè non un politico che, trovando sempre più vasti consensi personali nell’elettorato, emerge fino a contrastare in una dialettica interna anche accesa il segretario e ad auto-proporsi, a candidarsi “contro”, ma spesso persone che vengono messe al vertice, non si sa bene da chi.
Il fenomeno delle “nomine” anche al vertice non è limitato a quei partiti nati intorno ad una personalità – Berlusconi, Beppe Grillo – e costituenti nella pratica un potere assoluto, contrastabile solo con l’abbandono della formazione, ma anche a partiti più tradizionali.
Nel PD, ad esempio, le reali ragioni delle dimissioni da segretario nazionale di Zingaretti, apprezzato Presidente della Regione Lazio, credo siano note solamente a pochi (non certamente a me); così come il processo con il quale è stato designato, scegliendolo all’esterno, il suo successore, proposto per un voto (a mio modo di vedere) solo formale agli organismi di direzione.
Ma ciò vale anche altrove e, purtroppo, vale anche per la Presidenza del Consiglio: non più appannaggio di chi esca vincitore di una difficile tenzone elettorale, ma da personaggi, per l’appunto, “nominati”.
Fenomeno che nell’ultimo decennio è stato predominante: da Monti a Conte per finire alla attuale presidenza Draghi.
Quest’ultimo, operando a un livello sopra la politica, sta ricevendo un unanime apprezzamento. Lo testimoniano i sondaggi statistici pubblicati proprio ieri sui principali quotidiani ed è un gradimento “anti politico” in linea con la sempre più diffusa astensione al voto di cittadini passivi e sfiduciati.
La prima votazione alla quale ho partecipato (si diventava maggiorenni a ventun anni all’epoca) fu quella del 12 maggio 1974, referendum sul divorzio. Partecipò al voto l’87,7% degli aventi diritto: per la cronaca vinse il no col 59,3% e l’Italia entrò nel futuro: nel 1975 la riforma completa del diritto di famiglia; poi equo canone e altre riforme basilari che hanno dominato la felice (ma il giudizio potrebbe essere condizionato dal mio averlo vissuto da giovane) stagione degli anni ‘80.
Il mezzo politico del referendum ha perso vigore: oggi si contrasta il quesito proposto col mancato raggiungimento del quorum, favorito dal disinteresse per la cosa pubblica.
Se non ritorna la competizione reale, l’impotenza politica diverrà cronica e non curabile.
Non è competizione quella tra partiti che dopo essersi reciprocamente tacciati delle peggiori infamie si apparentano per gestire il potere, né quella che spinge fuori dal partito chi sembra prevalere per un proprio carisma, né quella che ha indotto più di cento parlamentari del M5S a cambiare casacca.
Servirebbe un drago, insomma, che democraticamente emerga con le sue forze, solamente per pensare a un “dopo Draghi”. Ma bisognerebbe cambiare molte cose perché ciò avvenga: addirittura pensare di ridare al cittadino il diritto di scegliere.