Qualche anno fa, appena ventenne uscivo tutte le mattine dal portone in via dell’Anima – qui a Roma – giravo a sinistra e poi ancora per costeggiare Piazza Navona: ne evitavo lo sguardo – quello di Sant’Agnese – su di me, alle prime luci del mattino; era già sveglia lei – la piazza – ma troppo, troppo brillante perché la guardassi senza interdizione negli occhi. Dovevo camminare e in fretta, verso il primo lavoro, cominciato in novembre.
NON V’ARRESTATE MA STUDIATE IL PASSO
Così, dopo un breve tratto di Corso Rinascimento e un’occhiata di sole su Sant’Andrea della Valle, in un momento la scia di Corso Vittorio Emanuele mi traghettava su Largo Argentina. Travolta dai templi della sua area sacra, intravedevo le Botteghe Oscure – rimandando quel saluto a più tardi: non potevo arrestare il cammino, ma studiare il passo (“Lo sol sen va”, soggiunse, “e vien la sera; non v’arrestate, ma studiate il passo, mentre che l’occidente non si annera” Dante, Purgatorio/Canto XXVII) e nemmeno virare su via Caetani per la biblioteca del Centro Studi Americani o dagli amici del bar di via dei Falegnami. Tutto, forse, da rimandare a più tardi.
PONTE GARIBALDI
Correvo, superando il Teatro Argentina, scavalcando braccia e gambe in attesa alla fermata dell’autobus antistante. Svoltavo su Largo Arenula e di seguito sulla via omonima. L’odore colorato del cielo romano, accarezzava financo l’asfalto, ancora umido – ed anche nei mesi invernali, il freddo diventava accogliente: l’aria fresca mi cingeva la gola di ristoro, nella rincorsa per raggiungere Ponte Garibaldi, che mi avrebbe condotto finalmente all’ultimo tratto sul Lungotevere Sanzio. Il sapore del mattino di Roma lambiva tutto quel tragitto che dal centro storico diventava in un balzo Trastevere. Ponte Garibaldi, avrebbe poi significato ancora tanto per me: la prima lettura subito dopo l’uscita del mio libro con la Casa delle donne durante una meravigliosa manifestazione – nell’aura rosa shocking di novembre e delle piume che portavamo sul capo; con il cielo plumbeo, quasi all’inglese, sorretto dai Platani che abbracciano Roma, il suo fiume e s’intrecciano.
VIA ARENULA
Ogni mattina, percorrere a piedi il tragitto verso il lavoro, più che un’esigenza pratica, si rivelava nella sua natura di bisogno: di necessità. Ogni volta, schizzando davanti al Ministero della Giustizia su via Arenula, fissavo nella mente un’unica fotografia: la scrivania di Togliatti, quando il Migliore ricopriva l’incarico di Ministro della Giustizia nel 1946. E mentre cadevano le foglie dai platani, tiravo un sospiro all’altezza di Piazza Cairoli, prima d’incontrare quell’immagine, passando dal ministero. Ripetevo tra me e me quasi ritmicamente gli appunti di Gramsci: “un partito potrà avere una maggiore o minore composizione del grado più alto o di quello più basso, non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale.” E la commemorazione a Napoli nell’ottavo anniversario della sua morte, da parte di Togliatti – che in quell’occasione gli attribuì il merito di aver individuato negli intellettuali «il tessuto connettivo della società italiana attraverso i secoli» dopo aver letto i quaderni del carcere, passati da Mosca tra il 1938 ed il 39 e giunti a Togliatti successivamente ad Ufa, sede del Comintern.
GLI INTELLETTUALI, ARMATURA ISTITUZIONALE DELLO STATO
Gli intellettuali costituivano – secondo quanto ribadito da Togliatti al V Congresso del partito nel dicembre del 1945, dopo la liberazione dell’Italia tutta – l’armatura istituzionale dello Stato: «Una nazione ha dei quadri, ha una sua classe politica dirigente, ha i suoi intellettuali e i suoi tecnici, una massa di uomini nei quali si incarna la direzione della vita economica e politica di tutto il Paese». Si trattava di un programma di rinascita della nazione: la presentazione agli italiani del PCI, che prevedeva nei suoi punti essenziali il riorientamento dei “gruppi intellettuali”.
IL SENSO SMARRITO
Oggi, a distanza di qualche anno e grazie ad una sorpresa – in un giorno (ancora!) di novembre – ho visto da vicino la scrivania di Togliatti. L’emozione è stata forte e densa di significato: ricca di tutte quelle mattine e di tutti i ritorni la sera tardi verso casa – ha riattribuito un senso pieno a quel tragitto ed allo scopo che lo riempiva. E però, a pensarci bene, ad oggi quell’antico senso dei quaderni di Gramsci accolti da Palmiro Togliatti, sembra essersi smarrito nel tessuto italiano. Un innesto politico che è innanzitutto tecnico e dimentico dello spessore intellettuale, non può migliorare il popolo né significarne l’avanzamento del progresso; non può “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa lavorare a suscitare élites intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le ‘stecche’ del busto.” (Antonio Gramsci, quaderno 11).
LA FUNZIONE COMPLESSIVA DEL LAVORO INTELLETTUALE
Poiché secondo la visione gramsciana l’intellettuale non rappresenta soltanto l’aspetto teorico del concetto ma la sua intrinseca progettualità nella pratica sociale e politica: la manifestazione di pràxis e pòiesis. L’intellettuale per Gramsci non è unicamente il produttore di cultura: ovvero lo scrittore, l’artista, il filosofo, lo scienziato. Gramsci è infatti forse il primo studioso che attribuisce in senso stretto una funzione complessiva del lavoro intellettuale. L’avvento della società di massa e la commistione tra Stato e società civile richiedono la capacità ed il valore intellettuale per progredire anziché retrocedere e decadere spiritualmente e pragmaticamente nello strapiombo meccanico e depensante del consumismo.
LA SOSTENIBILITA’ TRA UMANESIMO E SCIENZA
Gramsci prima, così come Togliatti poi evidenziano dunque ed uniformemente il valore strategico degli ambiti dell’intellettuale umanista: lo scrittore, l’artista, il giornalista, il giurista ed al contempo quella dell’intellettuale scientifico, nell’esplicitazione del bisogno di figure quali «l’organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata». L’una insieme all’altra tramite un tessuto connettivo, dunque sostenibile. Come recentemente evidenziato dalla fluidità delle nuove frontiere del pensiero moderno: è necessaria una rinnovata prospettiva dello sviluppo sostenibile.
LA COMUNIONE DEI SAPERI
Una concezione che dalla scrivania di Togliatti, arrivi al “pensiero sistemico 2.0” del fisico Fritjof Capra – volta alla connessione di quattro dimensioni della vita: biologica, cognitiva, sociale ed ecologica – o alla visione “macroscopica” di Joël de Rosnay ed alla trasversalità del pensiero di Edgar Morin e che riguardi la conoscenza complessivamente ed il sapere inteso quale comunità e comunione dei saperi. Per far fronte in maniera unitaria al futuro ed alla molteplicità delle sue sfide, è necessario non che si pensi tutti univocamente e dunque allo stesso modo, bensì – molto diverso – che si colleghino le menti dando vita e respiro ad una vera e propria trasformazione culturale, come si augura Capra – e prima di lui Gramsci, e Togliatti da quella scrivania.