“Il comandante dei credenti, lo sceicco Hibatullah Akhundzada, ha fatto un’apparizione in un grande raduno nella madrassa di Hakimiya ed ha parlato per dieci minuti ai valorosi soldati e seguaci” – questo l’annuncio del governo talebano tramite una audio registrazione. Ed infatti, prima della suddetta cerimonia nella scuola coranica a Kandahar, il leader supremo non era mai apparso pubblicamente, se non in occasione della sua nomina nel 2016. Le preghiere recitate dal mullah e diffuse dalla clip rappresentano dunque simbolicamente il principio esegetico del potere dall’insediamento dei talebani.
LA VOLONTA’ IN PREGHIERA
Il leader Akhundzada, succeduto a Mansour – in seguito alla sua uccisione durante un attacco di droni americani in Pakistan e prima di allora coinvolto principalmente in ambito religioso e giudiziario piuttosto che in manovre militari – è divenuto noto come “l’emiro dei credenti”, ed in quanto leader supremo è responsabile del mantenimento dell’unità all’interno del movimento islamista. La cerimonia di preghiera è la determinata espressione di questa medesima volontà; lo sceicco quale fulcro e moto propulsore nell’atto della trasposizione pratica di tale indicatore: rivolto ai discepoli perché si rafforzino le membra dell’organismo talebano, sempre più unite tra di loro.
CHI DIVIDE NON PUO’ COMANDARE
I discepoli del movimento sanno bene del resto che a loro, più che a qualunque altra forza politica e militare, è richiesta l’unione più densa e viscerale – quale fondamento essenziale di forza. Ed è implicito che chi sappia realmente esercitare il comando, si adoperi per la più completa aggregazione di tutte le sue braccia. In sostanza potremmo assumere che chi al contrario disgrega, smonta, separa, divide non può comandare veramente alcuno – e men che mai un movimento politico.
ESTREMI GENERANO ESTREMI
Ecco forse perché, nello stato delle cose presente, prendere addirittura come esempio di particolare “unità” lo spirito di aggregazione di una forza così estrema e virulenta quale è quella talebana, non implica una visione complessiva poi così artefatta della realtà. Già perché nel mondo degli estremi e degli estremismi, dove “o tutto o niente”, o difesa o insulto, o “con te o contro di te” – non può che emergere appunto un estremo o l’altro; dalla lotta tra radicali non nascono parziali – se non in matematica – ma si genera una continua catena di estremi che si riproducono fino ad annullarsi nella rassomiglianza del male.
IL PARADOSSO TALEBANO
E se di estremismo bisogna parlare, ecco la concezione assolutista per eccellenza ed al contempo l’apoteosi del paradosso: l’utilizzo della credenza quale mezzo, ovvero il ribaltamento dello spirito in materia tramite il pretesto religioso che si fa politica per sottomettere un popolo – ed ancora, l’ulteriore e più abietto rovesciamento – diviene il sistema più saldamente congiunto del mondo moderno, seppure così cruentemente primitivo e vetusto nel panorama internazionale.
LA CONSACRAZIONE DELL’UNITA’ NELL’ESTREMISMO
Come un tale paradosso trovi corrispondenza nella realtà: proprio perché ne rispetta gli estremismi in maniera durissima, dogmatica, materiale e in realtà nella totale assenza di spirito – ponendo quale scheletro strutturale a sua volta un dogma inalterabile e valido per qualsiasi forza politica e militare, quello dell’unione che fa la forza – la più becera, crudele e violenta nel caso specifico, purché sia unione. Ed è questo l’assunto del sistema di potere talebano: l’unità prima di tutto e contro tutti, per distruggere tutto il resto; la negazione dello spirito e del corpo dell’altro perché emerga unicamente il mio, anzi, il nostro di eletti: forti della nostra unità consacrata.