L’Italia si conferma al vertice dell’Unione europea per numero di donne imprenditrici. Un primato positivo che, però, convive con un dato strutturale ancora critico: il più basso tasso di occupazione femminile dell’Ue a 27. È il quadro che emerge dall’analisi diffusa ieri dalla Cgia che in pratica ha fotografato un sistema imprenditoriale femminile sì dinamico, ma ancora frenato da limiti strutturali. Nel 2024 le partite Iva intestate a donne in Italia hanno raggiunto quota 1.621.800, pari al 16% del totale delle donne occupate. Un dato che ha collocato il nostro Paese davanti a Francia (1.531.700, 10,8%), Germania (1.222.300, 6,1%) e Spagna (1.136.000, 11,3%). Un record europeo che non è bastato però a colmare il divario occupazionale di genere, storicamente penalizzato da carenze nei servizi sociali e per l’infanzia.
Il trend positivo è proseguito anche nel 2025. Nei primi nove mesi dell’anno lo stock medio di imprese guidate da donne ha raggiunto 1.678.500 unità, con un incremento del 2,7% rispetto allo stesso periodo del 2024. Un ritmo di crescita più che doppio rispetto a quello dell’imprenditoria maschile, ferma a +1,1%, nonostante in termini assoluti le imprenditrici restino meno della metà degli uomini.
Sette imprese su dieci nei servizi e nel commercio
La vocazione settoriale dell’imprenditoria femminile resta fortemente concentrata nei servizi e nel commercio, che insieme rappresentano il 71% delle attività guidate da donne. Al 30 settembre 2025 il commercio è il comparto con il maggior numero di imprese femminili (288.411), seguito dall’agricoltura (186.781), dagli altri servizi alla persona come parrucchiere, estetiste e lavanderie (136.173) e dall’alloggio e ristorazione (120.744). Un elemento distintivo riguarda l’impatto sull’occupazione: a differenza degli uomini, le donne imprenditrici tendono ad assumere altre donne in misura significativamente maggiore. In un Paese dove il lavoro di cura grava ancora in modo sproporzionato sulle spalle femminili e dove gli investimenti pubblici in welfare sono stati limitati, l’imprenditoria in rosa si configura come uno strumento concreto per sostenere l’occupazione femminile.
Le motivazioni che spingono le donne a fare impresa sono almeno due. Da un lato fattori strutturali, come la disoccupazione, le tradizioni familiari o gli incentivi economici; dall’altro motivazioni più personali, legate al desiderio di autonomia e di flessibilità. L’autoimpiego consente infatti di conciliare meglio lavoro e famiglia e rappresenta spesso una via di rientro nel mercato del lavoro dopo periodi di inattività legati alla maternità.
Una leva economica da valorizzare
Secondo la Cgia l’imprenditoria femminile non è solo una questione di equità, ma una vera leva di crescita economica. In un contesto segnato da stagnazione demografica e trasformazioni tecnologiche, colmare anche solo in parte il gap di genere nell’impresa potrebbe generare un aumento significativo del Pil, grazie a una migliore valorizzazione del capitale umano. Sul piano qualitativo, le imprese guidate da donne mostrano spesso modelli di governance più inclusivi, maggiore attenzione alla sostenibilità e una spiccata capacità di innovazione organizzativa. Non a caso, la presenza femminile è forte in settori ad alto valore sociale come sanità, istruzione, welfare, cultura e servizi alla persona, comparti sempre più centrali nelle economie mature.
Il principale ostacolo resta l’accesso alle risorse. Le imprenditrici incontrano maggiori difficoltà nel credito, minore accesso al capitale di rischio e reti professionali più fragili. A ciò si aggiunge il carico di lavoro di cura, che limita le possibilità di crescita. Il risultato è un sistema di imprese mediamente più piccole e meno capitalizzate, con una perdita di potenziale per l’intera economia.
Sud in testa per incidenza
Dal punto di vista territoriale il Mezzogiorno è l’area con il maggior numero di imprese femminili (415.242) e anche con l’incidenza più alta sul totale delle imprese (24,3%). La Lombardia è la regione con più aziende guidate da donne (162.190), seguita da Campania e Lazio. Ma il primato per incidenza spetta al Molise (27,7%), davanti a Basilicata, Abruzzo e Umbria.



