Un nuovo rapporto del laboratorio di ricerca umanitaria della Yale University getta una luce ancora più cupa sul conflitto in Sudan, documentando quello che gli analisti definiscono un “sistematico tentativo di insabbiamento” da parte delle Forze di Supporto Rapido (RSF). Attraverso immagini satellitari, testimonianze e analisi geospaziali, il dossier ricostruisce settimane di violenze nella regione del Darfur e mostra come i miliziani avrebbero cercato di cancellare le tracce di esecuzioni sommarie, deportazioni e sepolture di massa. Secondo il rapporto, in diverse località controllate dalle RSF sono state individuate aree di terreno movimentato compatibili con fosse comuni scavate e ricoperte in tempi rapidissimi, spesso a ridosso di attacchi documentati da osservatori indipendenti. Le immagini satellitari mostrano camion, escavatori e pattuglie armate operare nelle stesse zone dove, poche ore prima, erano stati segnalati rastrellamenti di civili. Gli analisti parlano di un “pattern ricorrente”: violenza, rimozione dei corpi, occultamento. La strategia, secondo Yale, avrebbe un duplice obiettivo: ridurre la visibilità internazionale delle atrocità e impedire future indagini giudiziarie. Le RSF, già accusate di crimini contro l’umanità, avrebbero inoltre limitato l’accesso alle aree colpite, bloccando operatori umanitari e osservatori locali. Il rapporto cita anche testimonianze di sopravvissuti che raccontano di interi villaggi svuotati e di corpi caricati su mezzi militari per essere trasportati in luoghi sconosciuti. Il governo sudanese, impegnato in una guerra interna che ha devastato il Paese, non ha commentato direttamente le accuse, mentre le RSF respingono ogni responsabilità parlando di “propaganda ostile”. Ma la pubblicazione del dossier ha riacceso l’attenzione internazionale su un conflitto che, nonostante la sua gravità, fatica a trovare spazio nel dibattito globale.



