L’analisi della politica americana dopo le ultime elezioni del 2025 segna un ritorno del Partito Democratico. In realtà non so se si possa parlare di ritorno del Partito Democratico, perché il concetto di partito negli USA non è lontanamente paragonabile a quello del sistema europeo. In Europa siamo abituati a pensare ai partiti come a organizzazioni strutturate, con tessere, congressi, linee programmatiche vincolanti, una base militante che discute e vota, apparati burocratici consolidati. Negli USA tutto questo semplicemente non esiste, o esiste in forma embrionale e frammentata.
I partiti americani sono piuttosto coalizioni elettorali ampie e mutevoli, più simili a brand che a strutture organizzative. Al loro interno convivono anime diverse, spesso in contraddizione tra loro, unite più dall’esigenza di vincere le elezioni che da una visione ideologica coerente.
Questo spiega perché contano molto di più le personalità e perché in relazione ai Dem, siamo di fronte a un cambio di paradigma di linee strategiche. Parlare di “ritorno” dei Democratici, quindi, non significa un recupero di coerenza dottrinaria, ma piuttosto la capacità di ridefinire linee strategiche e di leadership in un contesto fluido. Meno enfasi alle pseudo ideologie wokiste, più stato sociale, protezione delle minoranze e delle fasce più deboli sono elementi che suggeriscono che i Democratici stiano cercando figure capaci di incarnare un pragmatismo sociale piuttosto che un radicalismo ideologico.
Però è indubbio che nonostante le vittorie repubblicane in Georgia , Mississipi e Oklahoma, si sia verificato comunque un avanzamento dei Dem a livello locale e di down ballot soprattutto in Mississipi e Georgia
I Democratici hanno guadagnato un Governatorato a livello complessivo aggiudicandosi la Virginia e il New Jersey. Inoltre hanno acquisito importanti incarichi elettivi in questi Stati come l’ attorney general della Virginia. A questi risultati si deve aggiungere per importanza l’ elezione del Sindaco di New York, il quale vince sulla base di un programma sociale importante, tanto che il Presidente Trump ha gridato a un governo della città comunista.
In realtà il dato politico è che i democratici sembrano aver trovato le risorse per un cambio di leadership che consente loro di riproporsi alla Nazione, complice una persistente crisi economica percepita e forse l’ eccessiva aggressività dell’ amministrazione Trump sulle minoranze che ha comportato un reflusso di voti degli immigrati regolari dai Repubblicani ai Dem.
Il dato politico è che il partito Democratico che sembrava inerte quasi in stato vegetale, non è affatto morto, anche se in queste elezioni le sue diverse anime non hanno dovuto scegliere quale di esse fare prevalere. Il momento che si arriverà alle primarie per la presidenza tale scelta, cioè su quale anima far prevalere, se quella più sociale e pragmatica o quella più identitaria e radicale, dovrà essere fatta. In sostanza se il Trumpismo ha un suo baricentro perché incarna istanze pre esistenti e ha un suo erede (a parte le speculazioni su un possibile terzo mandato) individuato in JD Vance, i Democratici sembrano aver trovato una strategia, ma devono ancora individuare l’ uomo capace di operare una sintesi in grado di renderlo un centro gravitazionale per l’ aggregazione del consenso.
Un dato politico, quello democratico, che comunque potrebbe riverberarsi nelle prossime elezioni di midterm, dove a questo punto i Dem potrebbero almeno tentare di strappare una camera ai repubblicani il che avrebbe riflessi importanti anche sui poteri presidenziali, molto ridotti in assenza di un congresso dello stesso colore. Una possibilità difficile, ma non impossibile.
L’ ipotesi è tutta da verificare perché si deve comprendere che i vari livelli di governo in America, a partire dalla dicotomia Governo Federale / Stati, rendono molto difficile fare previsioni.Inoltre è anche vero che i Dem hanno vinto in stati tradizionalmente definiti blue states. Tuttavia l’ erosione del consenso nelle enclave repubblicane è una realtà. Le ultime vicende relative allo shutdown, a mio avviso non sono un indicatore significativo, perché se è vero che i Dem si sono divisi, è anche vero che la responsabilità per il blocco del governo federale protratta sine die, avrebbe potuto costituire un boomerangper i Dem stessi.
In questo quadro non semplice, Repubblicani e Democratici cercano di ridisegnare i distretti elettorali nei singoli stati per favorire l’ assegnazione dei seggi al partito di maggioranza dello stato in questione, cosa avvenuta ad es. in California. Degna di nota anche l’ azione dei repubblicani per dichiarare incostituzionale la costituzione di alcuni distretti elettorali operata tempo fa, per garantire una rappresentanza alle minoranze. Se l’ operazione avesse successo i Dem si troverebbero a perdere 19 seggi in un solo colpo. Questo passaggio sul redistricting è cruciale: la manipolazione dei confini elettorali (gerrymandering) è una delle leve più potenti per alterare la rappresentanza e mostra come la battaglia politica americana non si giochi solo sul consenso, ma anche sull’ingegneria istituzionale.
Senza usare toni apocalittici, il confronto scontro tra due anime dell’ America che non si riconoscono brucia ancora sotto le ceneri dell’ Amministrazione Trump. Democratici e Repubblicani non abitano solo in stati diversi, ma in ecosistemi informativi diversi, guardano media diversi, hanno narrazioni storiche divergenti su cosa sia l’America e cosa debba diventare. Questa polarizzazione “affettiva” – dove l’altro partito non è visto come un avversario ma come un nemico – rischia di minare le fondamenta del compromesso democratico. In ogni caso il confronto elettorale è tutt’ altro che scontato. Il fatto che Trump abbia avuto una vittoria netta, ma non una valanga di consensi alla Regan con le coste rimaste democratiche, lascia aperti gli scenari futuri. In questo contesto le operazioni di ingegneria elettorale da ambo le parti rischiano di costituire un ulteriore elemento di sfiducia e in potenza destabilizzante.



