domenica, 17 Novembre, 2024
Il Cittadino

Elogio del giudice

I giudici non meritano quello che gli è successo.

Lo dico consapevolmente, senza intento adulatorio, nel rispetto della funzione che svolgono e con riferimento alle circa diecimila persone che compongono la magistratura ordinaria: persone che, nella quasi totalità, svolgono il proprio delicatissimo ufficio con coscienza e competenza.

Diecimila persone, però, che considerate unitariamente, come corpo unico, non hanno saputo evitare la deriva, la deviazione che oggi incrina la dignità ed il prestigio del ruolo loro affidato dallo Stato.

In questo c’è una precisa responsabilità delle loro rivendicazioni, diciamo così, “sindacali”, improntate ad una tutela di privilegi e di garanzie, piuttosto che ad una modernizzazione del sistema. Responsabilità anche del ruolo sempre più “politico” e sempre meno giurisdizionale delle “correnti”, i partiti in cui essi si sono divisi: salvo poi ritrovare una sintesi nell’A.N.M.. Sintesi che non so dire quanto felice e quanto invece incentrata solo sulla consapevolezza di essere uno dei tre poteri dello Stato, che ha la coscienza di riuscire – forse a volte proprio volendolo – a condizionare gli altri due.

Quando il legislatore costituente ha disegnato il Consiglio Superiore della Magistratura, ha ipotizzato un’architettura che consentisse un limitato confronto con la politica. Certamente, però, non poteva prevedere che cosa sarebbe diventata la politica da un certo momento in poi, né che la (rappresentanza della) magistratura, espressione di una élite culturale, si sarebbe adeguata alle volgari regole di spartizione del potere.

Non si deve perciò manifestare sconcerto per i rapporti inevitabili tra (rappresentanze della) magistratura e politica, quanto per il loro contenuto e per la finalità che non è più ravvisabile nell’amministrazione della giustizia, ma piuttosto nella gestione del potere giudiziario, che è una cosa ben diversa.

Il giudice come singolo – il destinatario del mio elogio – dovrebbe cominciare a rivendicare una dignità propria che la “sindacalizzazione” gli ha tolto: il merito, il suo diritto ad essere giudicato per il suo proprio valore.

Da oltre mezzo secolo, con l’eliminazione dei concorsi interni, nella magistratura si progredisce per anzianità. Indipendentemente, quindi, dalla preparazione del magistrato, dai suoi aggiornamenti professionali, dalla qualità del lavoro svolto, tutti raggiungono in carriera il grado più elevato, magari mantenendo le funzioni iniziali.

Annullamento del merito che è anche insito nella ignobile presunzione di debolezza all’ambiente, che offende ciascun singolo giudice: il quale, sospettato di non avere difese proprie, non può permanere in un determinato ufficio più di un certo periodo e che non si vede assegnare processi in base alle sue competenze, ma solo con un criterio casuale.

Conseguenze nefaste per la giustizia: il giudice, appena acquisite le competenze specifiche della specializzazione della sezione a cui è assegnato (mi riferisco soprattutto al settore civile e ai grandi Tribunali) deve essere trasferito; il capo dell’ufficio non può  decidere l’assegnazione dei giudizi in base alle specifiche competenze dei magistrati assegnati alla sezione da lui presieduta.

Annullamento del merito che trova l’esaltazione proprio in questi giorni, in cui si è ricaduti nel vecchio vizio italico di legiferare (male) sotto emergenza. Così che nell’incapacità del legislatore di riacquisire una sua dignità e autonomia si sta ipotizzando – sempre sotto dettatura proprio di quella (rappresentanza della) magistratura che si vorrebbe riformare – l’assegnazione degli incarichi ai giudici per sorteggio, in una falsa riforma che, stando alla bozza che circolava la settimana scorsa, lungi dal regolare le “correnti”, finirà per esaltarne la loro funzione deteriore: quella di mero potere.

La giustizia è un settore fondamentale per uno Stato moderno.

A dispetto di una pretesa superiorità ed indifferenza del potere giurisdizionale, essenziale ed organica anche all’economia del Paese.

La riforma deve essere vera e profonda e deve tendere non solo ad una modernizzazione del settore e a maggiori certezze per i cittadini e per le imprese.

Ma anche a ridare dignità e considerazione al giudice.

Magari separandone la carriera da quella dei magistrati che esercitano non la funzione giudicante, ma quella inquirente.

E, magari di ripensare, che nel 1988, l’80,1% dei votanti nel referendum – valido – aveva richiesto di stabilire per i giudici una forma di responsabilità civile.

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