Alla vigilia di nuovi tentativi diplomatici, la crisi mediorientale resta intrappolata tra veti politici, fratture interne a Israele e un crescente attivismo regionale. Ieri il ministro israeliano della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha annunciato un piano per trattare gli attivisti della Global Sumud Flotilla come terroristi: detenzione prolungata nelle carceri di Ketziot e Damon e stop a privilegi come tv o radio.
Gli organizzatori italiani hanno replicato che la missione è “nella totale legalità” e che, navigando in acque internazionali, Israele non avrebbe titolo per arresti o sequestri. La tensione con la flottiglia resta dunque alta. Sul fronte politico, Hamas ha respinto il presunto piano statunitense per il dopoguerra a Gaza, definendolo “Gaza non è in vendita”.
Il documento, di cui si è parlato sulla stampa americana, prevederebbe corridoi di trasferimento “volontario”, un’amministrazione straordinaria decennale (GREAT Trust) e una futura “entità palestinese riformata”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha intanto chiuso la porta a un accordo parziale su ostaggi e cessate il fuoco: durante una riunione burrascosa del gabinetto di sicurezza, ha riferito che il presidente Donald Trump è “nettamente contrario” a intese limitate e che “non c’era alcun accordo all’ordine del giorno”.
A spingere per un’intesa è stato il capo di Stato maggiore Eyal Zamir, sostenuto dai ministri Gideon Sa’ar e Gila Gamliel; contro i falchi Bezalel Smotrich e lo stesso Ben-Gvir. La ministra Orit Strock ha attaccato Zamir con toni biblici, accusandolo di codardia; il generale ha ribattuto ricordando di aver promosso l’operazione di 12 giorni contro l’Iran e di “approvare attacchi ovunque”. Un’istantanea della frattura tra vertice politico e apparati militari.
Operazione Carri di Gedeone fallita
A complicare il quadro, un memo interno dell’Idf – riferito dai media locali – valuta come “sostanzialmente fallita” l’operazione “Carri di Gedeone” lanciata a maggio per sradicare Hamas: obiettivi mancati su rovesciamento del gruppo e liberazione degli ostaggi, strategia “non abbastanza dura” e lezioni non assimilate, mentre prosegue la conquista di Gaza City sotto la sigla “Carri di Gedeone II”.
Tensioni interne
Il conflitto lascia cicatrici profonde anche nella società israeliana: ieri a Tel Aviv centinaia di persone hanno accompagnato il feretro di Idan Shtivi, 28 anni, ucciso da Hamas il 7 ottobre 2023 al festival Nova e recuperato senza vita nei giorni scorsi. Dal mondo religioso, il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa ha scritto con “profondo dolore” che per il terzo anno consecutivo a Gaza non si apriranno le scuole: “Li portiamo nelle nostre preghiere, perché la pace prevalga e possano reclamare la loro infanzia”.
Ammonimenti e condanne internazionali
Sul piano internazionale, la Germania ha ribadito la sua linea: “Gaza deve far parte di un futuro Stato palestinese in una soluzione a due Stati”, ha detto a Berlino il ministro degli Esteri Johann Wadephul, avvertendo contro annessioni in Cisgiordania e chiedendo il rilascio degli ostaggi. Da Bruxelles, la Commissione ha difeso l’associazione di Israele a Horizon Europe, assicurando meccanismi per garantire l’uso civile dei fondi e la possibilità di sospendere o recuperare risorse in caso di violazioni.
Sempre da Berlino, il rappresentante per i diritti umani Lars Castellucci ha chiesto un miglioramento “immediato, completo e sostenibile” della situazione umanitaria a Gaza nel rispetto del diritto internazionale. Parallelamente la Shanghai Cooperation Organization (SCO) ha “condannato fermamente” le vittime civili a Gaza e chiesto un cessate il fuoco, stigmatizzando anche gli attacchi di giugno contro infrastrutture nucleari in Iran. In Europa, il presidente del Consiglio Ue Antonio Costa, al Forum di Bled, ha sollecitato la piena partecipazione dei rappresentanti palestinesi ai consessi internazionali, inclusa l’Assemblea generale Onu, avvertendo che insediamenti e sfollamenti rischiano di “minare la pace e destabilizzare l’intera regione”.
Yemen e Siria
Sul terreno, gli Houthi hanno rivendicato l’attacco con missile nel Mar Rosso contro “una petroliera israeliana”, mentre a Sana’a una folla ha partecipato ai funerali del primo ministro houthi Ahmed al-Rahawi e di altri ministri uccisi in un raid attribuito a Israele. Al confine nord, il Libano denuncia che l’esercito israeliano mantiene e fortifica cinque postazioni nel Sud, nonostante il cessate il fuoco del 24 novembre, chiedendone il ritiro.
Nel frattempo, uno spiraglio si apre in Siria: ieri l’UNHCR ha reso noto che, dalla caduta del governo di Bashar al-Assad a dicembre, circa 850.000 rifugiati sono rientrati dai Paesi vicini e fino a 1,7 milioni di sfollati interni sono tornati nelle loro comunità. Restano però ferite aperte: violenze settarie in primavera ed estate, nuovi sfollamenti nel Sud e l’urgenza di corridoi umanitari più efficaci.