Sanremo ogni anno rappresenta una sorta di “ritiro spirituale italico” quasi come per ritrovarci tutti insieme per un atto di meditazione collettiva per dare fermezza ai nostri buoni sentimenti e anelarsi ad un tempo nuovo dove i problemi cogenti del mondo vedi guerre , malattie, cattiverie umane, nuovi orizzonti politici .possano essere meglio subiti attraverso un senso più umano che la musica forse può dare più di poesia, pittura ed arte in generale.
La musica entra dentro di Noi e muove cuori, cervelli e coscienze. Quindi Emozioni, che dal tormento alla gioia culminano con lacrime o sorrisi.
Nelle scale armoniche stemperiamo preoccupazioni, depressione, panico e siamo più vicini a quella ricerca che non finirà mai dell’Amore universale che sarà ciò che ci salverà sempre dalle cattiverie umane e anche dalle più potenti tecnologie emergenti.
Mentre scrivo non so a quale canzone andrà la palma della vittoria: se avranno ragione i bookmakers che preconizzano un successo di Giorgia o di Olly, o se la canzone di Simone Cristicchi, che sembra destinata al Premio della Critica, permetterà al cantante romano di bissare il successo di “Ti regalerò una rosa”. Di sicuro il suo brano, commovente e intenso, si iscrive in quella ricerca di amore assoluto cui facevo cenno.
Per i miei gusti, dal punto di vista musicale la kermesse dell’Ariston è superiore a quella dell’anno scorso. Non so se si debba anche a questo il record assoluto di ascolti fatti registrare dall’Auditel. È di sicuro un risultato che conferma un’antica legge della tv, la metafora dei “guardiani del faro”. Molti divi del piccolo schermo (in questo caso Amadeus) tendono a identificare se stessi come chiavi imprescindibili del successo di una trasmissione; ma in realtà è il faro a essere importante, non il suo transitorio guardiano.
La conduzione di Carlo Conti è molto diversa da quella del suo predecessore: molto più inamidata e istituzionale. Molti l’hanno definita “democristiana”, e paradossalmente questo aggettivo viene usato in termini spregiativi, come se la Democrazia Cristiana non avesse garantito per quasi mezzo secolo all’Italia pace, prosperità e libertà. Ma questo è parte di quel clima da tifoseria che sembra ormai inseparabile dalla politica e come sempre lambisce anche il Festival.
Devo dire che l’edizione di quest’anno ha indubbiamente evitato quell’infinità di discussioni, quei monologhi spesso gratuiti o faziosi, insomma quel clima divisivo che negli ultimi anni si era fatto molto pesante. Per converso, però, ha finito per apparire un po’ scipito. Non mi riferisco solo alla pratica scomparsa della trasgressività e del gossip, che sono ingredienti pressoché obbligati di ogni forma di attività artistica, e musicale in particolare: è proprio mancato quel “Paese reale” che con tutti i suoi difetti ha sempre fatto da filigrana al Festival della Canzone Italiana.
L’Italia, la sua storia, le sue inquietudini, i suoi travagli sono sempre stati il sottofondo del Festival: nei testi delle canzoni, come con “Vola, colomba” che celebrava il dramma di Trieste minacciata da Tito, o con “Chi lavora non fa l’amore”, canzone ispirata dall’autunno caldo. Poi, sempre di più, con gli elementi di contorno. Memorabile il minacciato suicidio (forse costruito ad arte) di un giovane disoccupato durante uno dei Festival condotto da Pippo Baudo (lui sì pienamente e orgogliosamente democristiano).
Forse la cura dagli eccessi precedenti ha causato un eccesso di “normalità”. Che però rischia facilmente di tramutarsi in grigiore. Per l’affetto che portiamo alla musica italiana e a Sanremo ci auguriamo che non accada.