Oggi parliamo di manette: di quelle “buone” che si usano da noi e di quelle “cattive” invece utilizzate nell’Ungheria di Orban (e non solo lì!). Mi spinge ad affrontare lo scomodo argomento un bell’articolo di Claudio Cerasa del 5 Febbraio u.s., dove il Direttore de “Il Foglio” ha voluto ricordarci come non si possa essere contro la gogna in Ungheria e – contemporaneamente – a suo favore in Italia; Per farlo, Cerasa cita addirittura Filippo Turati secondo cui non si può offendere una determinata libertà senza anche offendere tutte le altre. Non migliora la situazione il fatto che, da noi, l’uso delle manette sia ormai regolato da norme piuttosto precise, che hanno subìto evoluzioni diverse nel tempo, al fine di (provare a) garantire un equilibrio tra la necessità di tutelare la sicurezza pubblica e quella di assicurare invece il rispetto dei diritti fondamentali degli individui tenuti – per le ragioni più disparate, anche se non sempre valide – in cattività. Ma se una tale evoluzione normativa può riflettere i cambiamenti nella percezione, sociale e legale, afferente la restrizione della libertà personale, siamo ancora lontani dall’aver raggiunto un punto fermo nel considerare l’apposizione di manette come l’estremo tentativo di difendere i vicini del detenuto dalle possibili violenze di quest’ultimo nei loro confronti. Inizialmente, infatti, l’uso delle manette era disciplinato essenzialmente dal Codice di Procedura Penale e dalle leggi relative all’ordine e alla sicurezza pubblica. Quelle disposizioni consentivano l’uso delle manette come misura precauzionale per impedire fughe durante il trasferimento degli indagati, degli imputati e dei condannati, o quando vi fosse un concreto rischio per la sicurezza delle persone o per l’integrità fisica degli inquirenti o degli agenti di polizia. Negli anni, il legislatore italiano ha poi introdotto più stringenti limitazioni all’uso delle manette, enfatizzando spesso la necessità di rispettare i diritti umani e di limitare l’uso della coercizione fisica ai casi più strettamente necessari.
Dette modifiche normative sono state anche influenzate dalla necessità di rispettare le direttive europee e internazionali dettate in materia, nonché dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che è venuta costantemente a sottolineare l’importanza del trattamento di tutte le persone con dignità, evitando in ogni caso il ricorso a misure che potessero apparire umilianti o degradanti. Si è così giunti all’odierno principio guida: quello correntemente definito come “di proporzionalità e necessità”, secondo cui l’uso delle manette sarebbe permesso solo quando strettamente necessario e proporzionato a specifiche situazioni di pericolo.
In ossequio a tale principio, gli agenti di polizia e gli altri titolari del trattamento carcerario dovrebbero valutare – caso per caso – la necessità di usare le manette, tenendo conto della pericolosità dell’individuo, del rischio di fuga e di eventuali precedenti comportamenti violenti o di resistenza all’arresto da parte di quest’ultimo. Sono state così introdotte procedure più rigorose per l’accertamento e la giustificazione del ricorso alle manette, richiedendo alle competenti autorità di indicare per iscritto i motivi specifici della loro applicazione e di garantire che tale uso sia il meno restrittivo e anche il più breve possibile.
Almeno in apparenza dunque, l’evoluzione della disciplina sull’uso delle manette in Italia sembrerebbe riflettere un maggiore impegno verso il rispetto dei diritti fondamentali e la promozione di pratiche di detenzione maggiormente coerenti con i principi che ne scaturiscono.
Continuiamo tuttavia ad assistere al verificarsi di episodi che dimostrano come quel che, in teoria, è ormai assodato non sempre è capace di produrre pratici effetti, visto che le cronache insistono nel riferire di vicende ostensive di presunti usi eccessivi o non giustificati delle manette, talvolta riferibili a questioni relative alla formazione degli agenti e ai loro poteri di sorveglianza e di controllo dei comportamenti tenuti da coloro che sono affidati alla custodia di questi ultimi.
Il primo problema da risolvere resta dunque quello di dare effettiva attuazione al principio della presunzione di innocenza, che continua ad essere inutilmente previsto dalla normativa eurounitaria e, prima ancora, dall’articolo 27 della Costituzione italiana.
Speriamo che le tristi immagini che abbiamo visto in questi giorni aiutino l’ordinamento italiano ad avere maggiore considerazione verso la dignità di tutti coloro che debbano trascorrere in ceppi il tempo necessario per accertarne la colpevolezza o, magari, l’innocenza. Cosa dire di più?