Avendo appreso dalla vivavoce della Presidente del Consiglio che la riforma della giustizia viene accantonata in favore di quella che riguarda l’elezione diretta del Premier, preferiamo non lanciarci in sterili critiche su questa opinabile scelta, provando invece a suggerire – ai cittadini italiani che abbiano la ventura di cadere nelle maglie di Procuratori che abbiano confuso (diciamo così!) il loro potere-dovere di perseguire gli autori di reati, con la volontà di punire qualcuno, non per quel che fa, ma per quel che pensa – come difendersi dall’intento persecutorio che loro ne derivi, pur non potendo beneficiare delle guarentigie che l’ordinamento ha assegnato ai membri delle Camere.
Abbiamo già iniziato ad affrontare l’argomento lo scorso 25 ottobre, nell’articolo intitolato “Processo penale e diritto europeo”, spiegando come sembri ormai “cominciare a farsi strada – fra gli addetti ai lavori – l’idea dell’interazione fra strumenti di diritto nazionale e mezzi di ordine sovranazionale da utilizzare a difesa di imputati rispetto ai quali le procure, i Gip/Gup e i Tribunali della libertà si ostinano tutt’ora a negare quella presunzione di innocenza che … è stata addirittura sbeffeggiata in conferenze stampa di Procuratori della Repubblica che hanno chiesto (e ottenuto) il contemporaneo arresto cautelare di centinaia di persone che, in molti casi, neanche si conoscevano fra loro”. Quell’articolo ha suscitato più di una critica – taluna degna di attenzione e talaltra assolutamente pretestuosa – ma quella che più mi ha colpito è stata l’osservazione di un Collega avvocato che mi invitava a valutare le mie considerazioni alla luce della differenza fra “Law in the Books” e “Law in action” (il diritto scritto nei libri rispetto a quello che vive nella pratica); ritiene infatti il Collega che tutte le mie belle considerazioni sul primato del diritto sovranazionale si potrebbero facilmente infrangere di fronte ad un atteggiamento ostativo di un qualunque magistrato italiano che rifiutasse financo di prendere in considerazione il rilievo del diritto europeo rispetto alle questioni dinnanzi a lui sollevate.
Debbo riconoscere che – rappresentato in tal modo – il problema può senz’altro esistere, ma immediatamente dopo debbo anche pormi la questione delle eventuali conseguenze, per il giudice, dell’assumere un simile atteggiamento e queste ultime non mi sembrano di poco conto, visto che ci troveremmo necessariamente di fronte all’unico caso in cui un magistrato italiano debba rispondere direttamente del proprio operato; infatti la violazione del diritto sovranazionale può avvenire non solamente mediante l’emanazione di leggi dallo Stato membro, ma anche attraverso le sentenze dei giudici quali soggetti deputati, anche loro, alla tutela di ogni situazione di vantaggio conferita ai cittadini dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, ormai intesa – a tutti gli effetti – come un Trattato di utilizzare quale parametro per misurare la legittimità di ogni atto normativo, amministrativo o giudiziale adottato in quello Stato. Ma da questo principio – correntemente definito come “primato del Diritto dell’Unione” – deriva immediatamente l’obbligo, per ogni giudice nazionale, di garantire la piena efficacia di quel Diritto, disapplicando – all’occorrenza – qualunque disposizione interna che contrasti con norme del Diritto europeo direttamente applicabili come tali.
Questo vuol dire innanzitutto che – di fronte ad una disposizione del nostro Codice di Procedura Penale in merito alla quale la difesa di un imputato sollevi la questione della sua compatibilità con richiamata Carta – al giudice restano due strade e nessun’altra: o disapplicare quella disposizione, accogliendo la richiesta della difesa, oppure sollevare in via pregiudiziale – di fronte alla Corte del Lussemburgo – la questione dell’interpretazione di quella stessa disposizione, al fine di renderla compatibile con la Carta. E’, quest’ultima, una misura talmente forte da aver spinto il Giudice europeo ad affermare che l’obbligo di rinvio – previsto dall’articolo 267, § 3, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – continui a sussistere persino nel caso in cui, nell’ambito di uno stesso procedimento, la Corte Costituzionale possa aver precedentemente stabilito la legittimità della norma nazionale rispetto agli invocati parametri di compatibilità con quella europea. Nel caso in cui, perciò, un qualunque giudice – non escluso quello penale – rifiutasse di considerare in modo corretto la richiesta che gli proviene dall’Avvocato difensore di un altrettanto qualunque imputato (o indagato), andrebbe ad esporre sé stesso e lo Stato membro di appartenenza ad una procedura di infrazione la cui portata e le cui conseguenze sono facilmente immaginabili, consentendo così ai lettori di vedere con i loro occhi come anche la richiamata distinzione fra “Law in the Books” e “Law in action” possa rivelarsi fuorviante, almeno quando ci si occupa dei rapporti fra giustizia europea e giustizia italiana.