Settimana molto particolare quella appena trascorsa.
Era cominciata con una reazione di orgoglio lavorativo e un’ostentata voglia di superamento delle restrizioni imposte per combattere l’epidemia da coronavirus che, per un breve momento, a qualcuno sono apparse sovrabbondanti.
Tra lunedì e martedì il prevalere della volontà di ripresa lavorativa, davanti all’evidenza della gravità economica, avevano quasi retrocesso il covid-19 a virus di una normale influenza, forse addirittura meno letale.
Poi da mercoledì un aggravamento progressivo della situazione, la rivelazione di un virus mutante, la scoperta di una sua diffusione in tutto il mondo.
Col crescendo del finale di settimana: l’Oms in procinto di dichiarare la “pandemia”; scuole chiuse, attività sportive senza pubblico o rimandate; cinema a sedili alterni; trasmissioni televisive con applausi registrati; “abolizione” della stretta di mano; degli abbracci non ne parliamo; mantenimento della distanza di sicurezza, minimo un metro.
Fino ai provvedimenti del Governo di venerdì notte, sempre più pressanti.
Settimana in cui, almeno a Roma, si è cercato di tenere una vita quasi normale, in una anormalità palpabile: con qualche inevitabile contraddizione, non essendo eliminate del tutto le occasioni di affollamento gomito a gomito, come in autobus e metropolitana.
In questa normale “anormalità” ho trascorso la passata settimana.
Recandomi nel mio Studio, salutando da lontano i colleghi; vedendo clienti, rigorosamente con la scrivania di mezzo a creare la distanza di sicurezza; partecipando ad alcune udienze, con i giudici che sulla scrivania avevano, in luogo del codice, l’amuchina.
Mi sono anche recato un paio di volte in Redazione. Passando in una Piazza della Rotonda semideserta e concedendomi il lusso di una visita al Pantheon (da quanti anno non entravo?), senza fare la fila e fruendo quasi di una visita in “esclusiva”: io e altri quattro avventori; giuro, li ho contati.
Avvertivo, però, la mancanza di “normalità”. Che non ho trovato nè in un tentativo di passeggiata per strade deserte, né in due uscite serali: una cena di lavoro in un circolo di solito affollato, quella sera limitato al nostro triste tavolo solo maschile; una pizza con una coppia di amici, occupato nel locale solo un altro tavolo da due turisti dell’est.
Fino a quando giovedì sera, ecco in tutta la sua forza e magnificenza e capacità di suspence, la “normalità”.
Normalità rappresentata dalla finale di “Masterchef”.
E ribadita – ci voleva, perché venerdì è stato veramente duro – da una normalissima eco sulla stampa (tra tutti un bell’articolo di Walter Veltroni, una pagina intera su “Il Corriere della Sera”).
Il curioso è che Masterchef è un programma pieno di anormalità, con riferimento al “normale” modo di essere e di vivere della nostra Società.
Innanzitutto il privilegio della trasparenza e del merito. Non uno vale uno, ma uno solo – il vincitore – vale tutti gli altri. Vincitore scelto dopo prove dure, svolte alla luce del sole, col controllo dei giudici e del pubblico. Con aiuti che, quando ci sono, sono palesi e noti a tutti gli altri concorrenti. E con giudici, soprattutto, che sono accettati senza discussione, con un riconoscemento indiscusso della loro competenza.
Così che il programma, giunto alla IX edizione, gira senza alcuna polemica.
Col vantaggio che, essendo registrato, non risente delle influenze dei social, dei media o delle contingenze momentanee.
Con un mistero, infine, che a me pare inesplicabile e che, probabilmente, è il segreto meglio custodito d’Italia: mai nessun pettegolezzo, nessuna anticipazione sul nome del vincitore: che, necessariamente, prima della messa in onda, è già noto a un discreto numero di persone.
Quante basterebbero a generare un focolaio di un’epidemia…